Se continueremo a considerare i precari della scuola come una categoria omogenea del lavoro produttivo, non si risolverà mai il problema della docenza. Anche il ministro Gelmini affronta con ambiguità la questione: da un lato pensa a una specie di cassa integrazione dei precari, da inserire progressivamente nei quadri didattici, dall’altro parla di restituire dignità sociale al lavoro del docente, rivalutandone il merito.
Il plotone dei precari non si è formato dalla dissennata politica dei governi di sinistra. Il precariato della scuola è figlio di una cultura.
Tra il 1969 e il 1971 ci fu all’interno del partito comunista italiano un dibattito acceso sulla figura del docente. Una corrente del partito era contraria alla costituzione di una Cgil scuola perché considerava l’insegnante una figura intellettuale, non un lavoratore dipendente legato al processo di produzione. Un’altra componente del partito comunista giudicava invece maturi i tempi perché i professori entrassero a far parte della fascia del lavoro produttivo non intellettuale.
Questa discussione era stata innescata dai movimenti del ’68 che avevano visto studenti e professori a fianco degli operai nelle rivendicazioni sindacali. L’area culturale del partito comunista vicina alla tradizione gramsciana riteneva fondamentale che gli insegnanti, proprio per la loro delicata funzione, rimanessero fuori dalle logiche sindacali che inevitabilmente avrebbero fatto prevalere gli interessi economici e normativi della categoria. I professori, come gli altri intellettuali, dovevano - secondo questa corrente del partito comunista - essere portati organicamente all’interno dell’ideologia comunista attraverso l’esercizio dell’egemonia culturale.
Nel Pci finì per prevalere la linea operaista che puntava alla proletarizzazione delle professioni, alla costituzione dell’insegnante-massa, alla scuola come un’officina. E cose di questo genere: insomma, quello che ci troviamo oggi.
In più va aggiunto che proprio un governo di centrosinistra, presieduto da Aldo Moro, cominciò ad eliminare quelle relazioni tra scuola media superiore e Università che giustificavano culturalmente e formativamente l’accesso alle facoltà e quindi alle future professioni. E così, accanto all’insegnante massa, si è accomodato lo studente-massa: da un lato si rivendica il posto fisso pur avendo insegnato sì e no due anni, dall’altro si semplificano i piani di studio, e si laureano giovani indiscriminatamente, alcuni bravissimi perché hanno avuto la coscienza di studiare, altri pessimi perché, tanto, ci si laurea anche da mezzi somari.
La Cgil scuola, secondo una logica operaista ed egualitarista, con assoluta coerenza alla propria ideologia, tratta con i governi per garantire il posto fisso agli insegnanti attraverso leggine di comodo, passaggi automatici, concorsi ingestibili. Entrano nella scuola bravi insegnanti e mezzi somari: l’importante per il sindacato è che ci sia posto per tutti, anche tenendo bassi gli stipendi.
Il precariato nasce da questa cultura, e adesso, se non si ha il coraggio di spazzarla via, non si risolveranno mai più i problemi della docenza. La cosa più ingiusta e crudele è mettere tutti i precari nello stesso calderone. Ci sono giovani e meno giovani eccellenti che si sono dedicati con passione agli studi raggiungendo ottimi risultati che potrebbero mettere a disposizione degli alunni. Ci sono giovani e meno giovani insegnanti pessimi, che hanno studiato male e hanno strappato la laurea stentatamente. Vanno selezionati: l’ultimo concorso, mostruoso per la sua ingestibile entità, è stato bandito nel 1999. Con coraggio, va rimesso tutto in discussione attraverso nuovi criteri di reclutamento per selezionare i meritevoli.
Il governo ha preteso il massimo rigore, riducendo i finanziamenti alla scuola per gestire meglio il denaro pubblico.
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