«Bastava una risposta sbagliata e morivi con un colpo alla nuca»

Claire Ly descrive in un libro la follia del marxismo cambogiano e lo sterminio di due milioni di persone

«Bastava una risposta sbagliata e morivi con un colpo alla nuca»

nostro inviato a Brescia

«La sveglia era alle 4, restavamo muti in attesa di ordini dal caposquadra dei Khmer rossi per sapere che lavoro avremmo dovuto fare. Non la continuazione di quello del giorno prima, come avremmo potuto pensare da soli. Doveva dircelo lui, perché solo così da lui dipendevamo e perché questo era parte del progetto di Pol Pot per annullare le nostre personalità, per svuotarle. Poi chini sotto il sole, a raccogliere riso o a sistemare i terrazzamenti fino alle 12, con mezz’ora di sosta per una ciotola di brodo vegetale senza sale».
Claire Ly ha uno di quei volti senza età degli orientali. Ne ha conservato anche il sorriso, i modi gentili, perfino le movenze aggraziate che sembrano copiate da un bassorilievo del palazzo di Angkor. E l’essere rimasta esteriormente intatta, dopo quello che ha sopportato per quattro terribili anni - «Le vere cicatrici però sono dentro», confessa - è un secondo miracolo. Il primo è che l’ex prigioniera Claire Ly, oggi la scrittrice Claire Ly, è una rediviva, una persona nata due volte, resuscitata da quell’inferno in terra che sono stati i campi del regime cambogiano dei Khmer rossi. «Ovvero la follia elevata al rango di governo, il matrimonio dell’Uomo selvaggio di Jean Jacques Rousseau con un buddhismo tradito, a cui è stata rubata la compassione», sintetizza lei. E il racconto di quei quattro anni di non vita, ma soprattutto quello della sua conversione dal buddhismo al cattolicesimo, è contenuto nel libro Tornata dall’inferno (edizioni Paoline, 11 euro), presentato ieri a Brescia nel Centro Mater Divinae Gratiae delle suore Dorotee.
«Il lavoro riprendeva ogni giorno fino al calare del buio, che in Asia arriva presto, verso le 17 - continua lei raccontandoci quei giorni -. E di nuovo al campo, in fila indiana per non parlare con gli altri, un’altra ciotola di brodo di riso e poi la seduta di indottrinamento politico. Anche fino alle 11, dopo giornate massacranti e senza nulla in pancia. E alla prima testa che ciondolava il commissario ingiungeva “Tu, là in fondo, ripeti!”. E se non sapevi ripetere venivi portato fuori. Un colpo alla nuca e via».
Dal 1975 al 1979 sono scomparsi così due milioni di cambogiani su una popolazione complessiva di 7 milioni: 1.369 persone al giorno, ogni giorno. Cominciando per i primi due anni da quelli come Claire e i suoi familiari - persone abbienti, in vista e colte -; per poi passare nel secondo biennio, usando i sopravvissuti ridotti ad automi, alla soppressione degli altri, i contadini, la povera gente.
Perché questo era il progetto di Pol Pot l’intellettuale (possono essere una brutta razza, la storia insegna!); quello che, gettata in una risaia la laurea alla Sorbona, si trasformò in un macellaio di massa inseguendo nel nome del comunismo il progetto di una società fondata su un Uomo nuovo. Peccato che per crearla, di uomini e donne ne cancellò appunto due milioni con l’aiuto dei suoi fanatici seguaci in pigiama nero, i Khmer rossi appunto, adolescenti robot senz’anima né sentimenti. Bastava un gesto, bastava perfino portare un paio di occhiali - ergo persona colta, cioè uno che può pensare con la testa propria - per essere eliminati. Perché l’intellettuale Pol Pot temeva su tutti proprio gli intellettuali. «Così, un giorno del ’75, hanno ucciso mio padre, mio marito, due fratelli e mio suocero, fucilati insieme ad altri 300», ricorda Claire.
Un capitolo, quello della dittatura marxista cambogiana, tra i più bui della storia del secolo scorso, immortalato dal film Urla dal silenzio e testimoniato dai musei dell’orrore. Luoghi della memoria dove a parlare, anzi a gridare senza voce, sono milioni di teschi accatastati, muraglie candide che dovrebbero essere un monito contro eventuali tentazioni di ritorno a un passato lordo di rosso. «Peccato - dice la scrittrice - che nella Cambogia odierna, dove l’80% della popolazione lotta per sopravvivere con meno di due dollari al giorno, soprattutto i giovani non sanno nulla di quel periodo, tenuto nascosto dalle autorità».
E oggi può raccontare, Claire, nata nel 1946 a Battambang, nel nordovest del Paese, anche l’altro miracolo della sua vita, il terzo. Appunto, la conversione, coronata con il battesimo nel 1983. Ci racconta come in quei giorni, cercando da buddhista qualcosa su cui concentrarsi, aveva iniziato a sfogare la sua rabbia, il suo odio, sull’altro Dio. «Gli avevo dato il nome di Dio degli occidentali, insultandolo per due anni per quello che mi era successo. Poi, a poco a poco, qualcosa è cambiato, e quel Dio è diventato via via un appoggio, un bastone per procedere ogni giorno, anche se non avevo le parole per dirlo, per spiegarlo». Parole che troverà solo più tardi, dopo la liberazione e l’espatrio nel 1980 in Francia (insegna buddhismo all’Istr, l’Istituto di scienza e teologia delle religioni di Marsiglia), prendendo tra le mani un Vangelo. «Da buddhista non sono approdata al mistero dell’Incarnazione facendo un salto nel buio.

È stato piuttosto un cammino verso Gesù che mi ha sedotto per due motivi: perché la sua religione è l’unica in cui Dio entra nella nostra vita, con l’Incarnazione, e perché è la religione della libertà». Proprio quella che lei, per quattro anni, non ha potuto nemmeno sognare. Anche sognare era proibito.

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