La battaglia della Santanchè «Ho paura ma vado avanti»

Prima sono state le minacce. Daniela Santanchè lo aveva già annunciato: «Sarò lì a protestare contro la discriminazione delle donne islamiche, contro il velo come simbolo della segregazione». Domenica si era presentata puntuale, in mezzo a loro, davanti al teatro Ciak di Milano, sede scelta del centro islamico di viale Jenner per l’ultima preghiera del Ramadan. Sono partite frasi pesanti: «Domani muori», le hanno urlato un gruppo di fedeli musulmani. Poi gli spintoni, i colpi al costato, uno più forte degli altri che va a segno e che la fa cadere a terra.
Tutto finisce con una contusione e una contrattura al torace, con una diagnosi dell’ospedale di venti giorni. Tanta paura, ma altrettanto coraggio. Daniela si rialza e va avanti. La sua battaglia non si ferma. Neppure davanti alle minacce di denuncia. Il direttore della moschea, Abdel Shaari, nega l’aggressione. Dice che non è vero niente, che si è inventata tutto: «Solo una deplorevole provocazione». Ieri mattina ha raggruppato un nugolo di fedeli per andare in questura a protestare. Vogliono denunciare l’ex parlamentare per «Turbativa di funzione religiosa e violenza privata». Così hanno fatto. «Questa mattina - dice Abdel Hamid Shaari - siamo andati alla Questura di Milano per fornire la nostra versione dei fatti. Poi la denunceremo». Shaari ha poi spiegato che incontrerà il proprio legale per raccogliere le deposizioni delle donne che «sono state aggredite dalla signora Santanchè e dai suoi amici, nel tentativo di strappare il burqa». «La Santanchè - ha aggiunto il presidente dell’Istituto culturale islamico - non era sola. La verità è che lei per quaranta minuti ha fatto scorribande con i suoi scagnozzi - aggiunge Shari - e per questo la denunceremo per turbativa di funzione religiosa autorizzata». Poi Shaari precisa: «Rimane comunque il fatto che se qualcuno ha fatto qualcosa contro la Santanchè, come dice lei, è giusto che paghi. Ma la procura farà il suo lavoro, raccogliendo tutti i filmati e le testimonianze della Digos, e allora si vedrà chi ha ragione». Lei intanto non si fa intimorire. La sua è una battaglia che è appena iniziata. «Ho paura ma vado avanti lo stesso. Tutti hanno visto chi c’era ieri alla manifestazione e non credo che sia giusto che io debba sentirmi dire da dei delinquenti che sono bugiarda». E così torna a battere chiodo sul significato del velo. Non un simbolo religioso, ma uno strumento di sottomissione contro le donne islamiche, che spesso vivono in Italia senza parlare l’italiano, completamente scollegate dalla realtà che le circonda, dipendenti in tutto e per tutto dal marito, dal padre. Lo dimostra la madre di Sanaa. Ha tenuto per sé il dolore per aver perso la figlia per mano del marito. Si è stretta al ricordo e ha smesso di maledire il suo assassino. Si è fatta coraggio, ha chiesto aiuto all’imam della sua moschea, e ha smesso di piangere. Ai microfoni di chi la intervistava ha incolpato Sanaa. «È lei che ha sbagliato. Mio marito lo perdono». Una versione diversa da quella che aveva dato a caldo: «Voglio mia figlia. Mio marito mi ha tradito». Ma questo era prima che l’imam si impossessasse dei suoi sentimenti, delle sue reazioni. Dopo è stato tutto diverso. Dopo, a parlare era una moglie giudiziosa, una buona musulmana (ieri a Porta a Porta è tornata ancora sulla questione: «Perdono mio marito perché è il padre dei miei figli, loro hanno ancora bisogno di una figura di riferimento. Ma non lo perdono per aver ucciso mia figlia»). La battaglia di Daniela è anche per lei. «Se c’è ancora qualcuno che non ha capito che la vicenda di Sanaa è alla base della filosofia del burqa - dice Santanchè -, se c’è ancora qualcuno che non ha capito che il burqa non è un simbolo religioso ma di oppressione, si accomodi pure. Io porto avanti la mia battaglia». Sempre, nonostante gli attacchi, nonostante chi dice «Non era alla festa religiosa che doveva manifestare», come ha detto ieri Sofia Ventura, docente di Scienza politica all’università di Bologna. Ma la Santanchè reagisce: «La mia non è una provocazione. Sono nel mio Paese e mi sembra normale chiedere alle autorità di far rispettare la legge 152 che vieta di nascondere la faccia». L’ultima battaglia è in tv, su Telelombardia, dove va in onda Iceberg.

È qui che si trova a duellare e a litigare con Alì Abu Shwaiba, l’imam della moschea di Segrate. Lui dice: «Non l’ha ammazzata per motivi religiosi. Se l’ha ammazzata. È accusato, non c’è ancora una sentenza». E lei esplode: «Chiamate il 113, fatelo ricoverare».

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