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«Battisti non è un martire», estradizione vicina

MilanoL’estradizione è più vicina. Ma il match sul caso Battisti non è ancora finito. E dopo una lunghissima discussione è stato sospeso su un calcistico 4 a 3 per le tesi sostenute dall’Italia. Quando ormai per il Governo Lula e per l’ex terrorista dei Pac, i Proletari armati per il comunismo, tirava aria di sconfitta, uno dei giudici, Marco Aurelio Mello, è ricorso ad un escamotage per tirarla in lungo e sperare in un ribaltone: una richiesta di approfondimento del caso. A quel punto la procedura di voto, che era in corso, è stata bloccata e il caso tornerà davanti al Supremo Tribunale Federale la prossima settimana. Forse, fra una decina di giorni. O, come ipotizza la stampa brasiliana, anche più in là.
I giochi all’interno del potere giudiziario sembrano però chiusi: quattro magistrati su nove hanno votato per spedire Cesare Battisti in Italia, tre si sono opposti, Mello, contrario al rimpatrio, ha preso tempo. E a quel punto il Presidente Gilmar Mendes non ha potuto esprimere il proprio parere. Ma in precedenza, aveva detto chiaro e tondo che l’Italia ha ragione.
Insomma, quando sarà, l’avvelenatissima partita dovrebbe finire cinque a quattro per Roma. In ogni caso, il nostro Paese ha già incassato un primo, clamoroso risultato: sempre per cinque a quattro il Supremo Tribunale Federale ha detto che l’asilo politico non sta in piedi. E che il provvedimento del ministro della Giustizia Tarso Genro non è conforme alla legge e dunque non è valido. Non solo: con la stessa risicata maggioranza, il tribunale ha dichiarato inesistente «il fondato timore di persecuzione» evocato dal guardasigilli di Brasilia.
In altre parole i giudici hanno tolto a Battisti l’aureola del martire o del perseguitato politico e i magistrati hanno capito benissimo che l’Italia non è una sanguinaria dittatura sudamericana. Del resto, il relatore della pratica Battisti, Cezar Peluso, aveva spiegato agli otto colleghi che il salvacondotto sarebbe stato uno schiaffo all’Italia e alla sua democrazia. Per carità, basta andare a Parigi, dove pure ha peregrinato «l’esule» Battisti, per ascoltare incredibili e infiammate prediche su fantomatici tribunali speciali che si troverebbero nel nostro Paese.
Pazienza, il caso Battisti anche se non è risolto rientra nei binari dell’ordinarietà. Un dossier come gli altri. O quasi. Certo, Peluso ha posto una condizione che l’Italia sulla carta non può rispettare: la commutazione dell’ergastolo, anzi dei due ergastoli che Battisti dovrebbe scontare, nella pena a trent’anni. Il massimo per Brasilia. Ma già nel 2007 l’allora Guardasigilli Clemente Mastella, con praticità meridionale, aveva chiarito ai brasiliani che in Italia il carcere a vita c’è ma è virtuale. Dopo ventisei anni di galera il detenuto, se non ne ha combinate di tutti i colori, ottiene la libertà vigilata e torna a casa.
Battisti attende il suo destino nel carcere di Papuda, alle porte della capitale. Sulla sua testa pesa la storia criminale dei Pac, un piccolo gruppo di grande ferocia nella storia del terrorismo rosso. In particolare, i Pac uccisero a Milano il 16 febbraio 1979 l’orefice Pierluigi Torregiani, «il porco» come fu chiamato nel volantino di rivendicazione, la cui colpa era quella di aver sparato ad un rapinatore in un ristorante di Milano. Nel conflitto a fuoco, il figlio Alberto rimase ferito e da allora vive su una sedia a rotelle. «Speravo che questa storia finisse una volta per tutte - spiega Torregiani al Giornale - invece un giudice ha preso tempo. Mi toccherà pazientare ancora, ma io aspetto. È una vita che attendo giustizia.

E se il Brasile non estraderà Battisti, andrò a Brasilia a prenderlo».

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