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Battisti unisce più di Mameli

Io non so se fra cinquanta o cent'anni le fanfare d'Italia occuperanno le piazze per suonare, tutte assieme nello stesso momento, una canzone del Digei Francesco. So soltanto che l'hanno fatto per Lucio Battisti, e la cosa non può passare inosservata. Sette anni dopo la sua morte, in un mondo che dimentica tutto nel giro di sette giorni, nei cieli di questo disorientato Paese si è diffusa la dolce melodia di un brano immortale, il più gettonato di sempre: La canzone del sole. Le bande di quartiere sui selciati antichi dei borghi storici, gli artisti di professione nei caffè e nelle librerie, Ligabue addirittura nel mezzo del suo concerto, a tarda sera: tutti quanti intonati sullo stesso pezzo, lasciando correre i pensieri, i ricordi e la commozione. Attorno ai musicisti, tanta brava gente d'Italia, che per una volta non s'è vergognata di voltarsi indietro. C'erano i padri e c'erano le madri, fidanzati di allora. Ma c'erano anche i figli e le figlie, fidanzati di oggi. Ciascuno a modo proprio, ciascuno padrone del suo tempo e della sua epoca, senza imbarazzi e senza stupidi pudori: semplicemente e finalmente distesi, rilassati, molli e abbandonati, appoggiando la testa sulla spalla dell'amato e dell'amata, i giovani sognando qualcosa di meglio per domani, gli attempati rivalutando sommessamente qualcosa di ieri.
C'ero anch'io, lo confesso. Non per scelta, praticamente per caso. Ma a mezzogiorno meno dieci mi sono ricordato di questa cosa strana, come un 25 aprile o un natale profano, come un'occasione gratuita per salire sulla macchina del tempo e riscoprire l'emozione. Trovandomi a due passi da una delle piazze più belle d'Italia, la Piazza Vecchia della Bergamo Alta, ho intercettato il richiamo e non ho fatto nulla per resistere. Un omaggio al vecchio Lucio: non so come dire, ma ho come sentito il dovere e il piacere di partecipare. Senza chiedermi nulla di cerebrale, senza caricare di significati idioti il rapido pellegrinaggio, semplicemente e candidamente mi sono appoggiato alle transenne, davanti alla fanfara in alta uniforme, con maestro tirato a lucido, al fianco di tanti italiani diversi per età, sesso e settequaranta.
Non c'erano braccia alzate e accendini accesi ad accompagnare le note. Non c'era niente che ricordasse un miniconcerto. Era persino difficile riconoscere La canzone del sole in quella cosa lì, altamente professionale, ma suonata al modo e ai ritmi di una sagra della tinca. Eppure, non appena trombe e clarini hanno lasciato intuire l'inconfondibile motivo, qualcosa di clamoroso nuovamente si è ripetuto: trent'anni dopo i bei tempi d'allora, sette anni dopo la morte di Lucio. Nonne e mamme hanno continuato a ninnare i piccoli nei passeggini, che poi adesso sono passeggioni per via di queste ruote artigliate e questi telai millepieghe: ma ninnavano in un altro modo, con la testa reclinata, con lo sguardo calmo e lontano, al tempo di «o mare nero o mare né...». E loro, gli uomini, decisamente più trattenuti, ma senza riuscire a mascherare lo struggimento per una stagione rimpianta, la stagione un po' reale e un po' mitizzata degli interminabili lenti a tapparelle abbassate.
Forse per chi sogna con i Gemelli Diversi è difficile capire, e ovviamente non glielo si può chiedere e neppure bisogna fargliene una colpa. Ma per chi era lì, al cospetto delle fanfare d'Italia improvvisamente battistizzate, la sensazione è riemersa chiara e inequivocabile: dannazione, il fatidico effetto-Lucio, irresistibile e letale ai tempi in cui credevamo di cambiare il mondo, trent'anni dopo si ripresenta ancora intonso, persino adesso che nessuno s'illude più di cambiare il mondo e al massimo ci accontenteremmo di una sana manutenzione.
Che cos'è, tutto questo? Tre minuti, niente di più. Ristretti e immensi come i tre minuti di una qualunque canzone vera. Nessuna operazione nostalgia - al massimo, qualche accenno di malinconia -, né tanto meno un'occasione di reducismo un po' rimba. Solo una pausa, solo un pensiero. Quando le bande hanno sfumato le ultime note, quando noi abbiamo sfumato il nostro sommesso applauso, quando i borghi hanno ripreso i loro ritmi di frenesia prefestiva, del bizzarro e poetico mezzogiorno di Battisti è rimasta soltanto una suadente consolazione. Sì, in questa nazione sbrindellata e centrifuga, che non si ferma e non si sincronizza più per nulla, tanta gente senza nome s'è fermata e sincronizzata per un semplice cantante.
Vecchio Lucio, guardati in giro: non c'è polvere sulla tua musica. Piuttosto, sta succedendo qualcosa di strano e di inspiegabile.

Mentre ironizziamo ancora sull'Inno di Mameli, considerandolo centocinquant'anni dopo alla stregua di una marcetta, è dolce osservare quel che avviene sulle piazze d'Italia: La canzone del sole unisce più di un inno nazionale.

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