Cultura e Spettacoli

BAUDELAIRE Le maschere del male

«Il ribelle in guanti rosa» di Giuseppe Montesano evidenzia i travestimenti dell’anima e la visione allegorica della vita tipici del grande poeta

Se esiste qualcosa di arduo da ridurre a coerenza, è il vissuto riversato nelle pagine che aprono la letteratura moderna. Si sta parlando, ovviamente, di Baudelaire e dei suoi Fiori del male. Dove si incrociano patologie note e meno note, lampi di lucidità analitica, deliri, disinganni, echi di maestri buoni o da bettola, esoteristi, grandi e mediocri artisti, utopisti quali Blanqui. E dove si avverte l’eco di barricate, ritorni all’ordine. Troppe istanze, per un disegno organico. O troppo grande l’opera del «re dei poeti» (Rimbaud) per leggerla, ancora oggi, con distanza critica.
Giusta, allora, l’opzione di chi Baudelaire lo conosce e lo traduce da anni: bypassare, filologicamente e storiograficamente attrezzati, filologia e storia del testo per raccontarne genesi ed evoluzione cercando di ricostruire l’insieme (incoerente, mai riducibile a linearità) degli impulsi e delle reazioni viscerali di chi l’ha composta. L’esito è un discorso in movimento che procede per accumulazioni e rintraccia traumi, influenze, letture, reazioni al tempo. Quella scritta da Giuseppe Montesano (Il ribelle in guanti rosa, Mondadori, pagg. 441, euro 19) è la vicenda d’un uomo che, avendo afferrato come (ancora?) nessuno le coordinate d’una modernità in fieri, avendone individuato evoluzioni, contraddizioni e orrori, da quella modernità venne via via sommerso, cancellato. E per un cancellato la sola chance di pseudosopravvivenza sta nel rivivere in apparenze, maschere: farsi spettacolo di se stesso.
Dunque, Baudelaire è artista, dandy, esteta, frequentatore di bordelli, utopista, deluso, uomo in debito con denaro e fortuna, eterno figlio, debosciato, rivoluzionario che sale sulle barricate (pare) per esibire una vicenda edipica... Il cancellato resta nel mondo dandosi una serie di travestimenti, di forme il cui apice terminale sarà una impareggiabile scrittura in cui tutta la vita torna come allegoria. Perché il cervello di Baudelaire è l’inverso di quello di Goethe: è inabile allo sguardo elevato, alle interpretazioni distaccate. Ha in dono una ricettività ipertrofica verso il proprio tempo, ci affonda dentro completamente. La sua genialità sta lì, nel non saper osservare oltre, nel dover affrontare frontalmente l’assenza di prospettive e di futuro in cui è caduto.
Il lettore degli utopisti che subito dopo il ’48 si dichiara «fisicamente depoliticizzato», opera negli anni di composizione dei Fiori del male la più devastante delle verifiche: nulla, mai, cambierà. La vita scorre senza mutamento (né rivoluzioni, né palingenesi religiose o paganeggianti o estetizzanti, né utopisti né parnassiani): tutto è simile al tutto, niente sta al di là del ciclo delle ripetizioni, niente di nuovo è mai accaduto o accadrà.
Azzardato, forse, sostenere che la stessa poetica delle corrispondenze trova anche qui, in un cosmo nauseante e chiuso di somiglianze, una delle sue fonti. Meno azzardato rilevare che da questa intolleranza disingannata nasce la rilettura di parole quali «spleen» e «ennui», intese come demoni dell’anima con cui un tempo privo di alternative aggredisce e tortura chi è costretto a viverci. Da imprigionato in una galera invisibile. In una fossa comune universale dove chi è vivo continua a ripetere i gesti dei morti e viceversa. Dove alto e basso coincidono. Dove positivismi ed Esposizioni universali sono i mascheramenti d’un tempo della miseria già intravisto da Holderlin.
Miseria che investe anche chi sembra aver trionfato e che, al contrario, altro gesto non può fare se non inabissarsi in eterno nelle proprie vittorie. Carnefici e vittime, ricchi e disgraziati appaiono livellati da un «male» che li ottunde e domina. Procedendo nella storia-indagine, Montesano riesce a interpretare le allegorie e le immagini che attraversano Fleurs, Poemi in prosa, Paradisi artificiali. E che si presentano per ciò che realmente sono: categorie esistenziali, momenti di fisicità verbalizzati o travestiti da una sapienza e un rigore spietati.
Non venne capito dai contemporanei, Baudelaire. Il rischio è che, a 150 anni dalla pubblicazione dei Fiori e dalle relative censure, i suoi versi siano riguardati come reperti di una grande mente passata alla storia, di un maestro di letteratura, un modello. Lo era, certo. Ma era soprattutto un disperato, forse solo un disperato.

Il più grande.

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