Milano - Francesco Bianconi, i suoi Baustelle sono tornati con un singolo, Charlie fa surf, che le radio trasmettono con i beep sulle parolacce e che nel testo fa riferimento addirittura a un antidepressivo, la paroxetina. Chi la prende?
«Io. Scrivo cose che mi fanno male. Non riesco a fare testi metafisici alla De Chirico, distanti da me».
Anche il vostro nuovo album Amen è un antidepressivo. C’è il rock suonato con spirito punk e c’è voglia di reagire alla disfatta del mondo.
«Volevamo fare un disco monumentale e barocco, di quelli che ai tempi del vinile erano doppi album. Ci siamo detti: e facciamolo».
Sono venute fuori 15 canzoni, un fiume in piena.
«E nel giro di due mesi erano già pronte».
L’atmosfera è anni 60/70, ed è pure molto cupa.
«Diciamo più vicina ai Velvet Underground che agli hippy».
E difatti quando li incontri, lui e gli altri due del gruppo, l’elegante Rachele Bastreghi e il razionale Claudio Brasini, i Baustelle sembrano subito fuori dal tempo: stravaganti, creativi, soprattutto preparati. La loro è una cultura onnivora, evviva!, e senza luoghi comuni. Sarà che vengono dalla provincia, quella di Siena, e quindi hanno dovuto sgobbare per dieci anni e tre dischi prima di farsi conoscere e aprire le porte che l’indifferenza aiuta a cementare. Oppure il merito è semplicemente del fatto che «siamo curiosi», come dicono in una trattoria qui a Milano davanti a un bicchiere di rosso, e che finalmente «anche le nonne della nostra Montepulciano si sono accorte che abbiamo fatto qualcosa di buono». Più sicurezza o più ispirazione: comunque sia, sono cresciuti. E cantano del tenente Colombo, di Alfredino Rampi o, per dire, del liberismo senza far sbadigliare, portando tutto al piano superiore, quello della riflessione, dei punti interrogativi, delle paure senza risposta. Ecco, in Amen c’è la tensione, che poi è il concime dell’arte germogliata in brani come Panico! o La vita va oppure Dark room. Perciò è uno dei dischi più attesi dell’anno e c’è già qualcuno che lo definisce «un capolavoro». Nientemeno.
D’accordo, Bianconi, che il vostro penultimo cd La malavita era piaciuto a tutti. Però un passo avanti così non se l’aspettava nessuno.
«Questo album è meno omogeneo e compatto della Malavita. Abbiamo pigiato tutte le idee dentro un hard disk e quando siamo arrivati in studio le abbiamo suonate per la prima volta. Tutto è andato così, semplicemente».
La musica è centrale. Ma la vitalità viene dai testi.
«In quasi tutte le canzoni c’è una tensione verso l’alto espressa da uno come me che non è credente».
Infatti si intitola Amen.
«Mi sembra sia un titolo giusto. L’idea di Dio, di sacro, è diffusa in tutto il disco. E anche dove non è nominato direttamente, Dio si manifesta “in absentia”: sia in positivo che in negativo».
Lei è ossessionato.
«Sì sono ossessionato dall’idea di Dio. Non credo. Ma cerco».
Si può dire che è un «ateo devoto»?
«Sì, lo sono. Le parole delle nostre canzoni descrivono una società occidentale allo sbando, in cui l’idea di Dio e di sacro sono andati a farsi fottere. È un tema pasoliniano, lo so».
Ma Pasolini trent’anni dopo. Anche il singolo Charlie fa surf è stato visto come un attacco alla Chiesa. Però sembra quasi parodistico, uno stratagemma per dire altro.
«Quello è solo il primo livello. In realtà è una presa in giro degli adolescenti come il protagonista della canzone che si ribellano senza ribellarsi a nulla e alla fine fanno solo ridere, vestiti tutti come rapper cattivi, omologati come mai prima d’ora».
Paradossalmente, la vera trasgressione oggi potrebbe essere la fede.
«Ma quella di tipo francescano, assoluta e rigorosa».
Però un vostro brano si intitola Baudelaire.
«Quello è un elenco di uomini che si sono autodistrutti, Baudelaire, Tenco, Socrate. È un inno al non-suicidio e a vivere la vita come se si scrivesse una poesia».
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