da Beirut
«Bang bang bang». Alle sei del mattino i cecchini di Tripoli danno il buongiorno all'umanità in viaggio. Mahmoud si scuote dal torpore, rincagna il collo, si piega sul volante, succhia folate tossiche di Lucky Strike, preme sull'acceleratore, cambia idea, pigia sul freno. Il milite in basco rosso sbucato dalla bruma mattutina gli sventola il kalashnikov sul finestrino. Il cecchino nascosto non concede altro tempo. «Bang bang bang». Mahmoud e il milite si scambiano un ultimo fugace ruggito, fuggono in direzioni opposte. Verso il blindato e la mitraglia il basco rosso. Avanti a rotta di collo sulla costiera deserta il malmostoso Mahmoud. Ha voluto 150 dollari per tre ore di periplo notturno da Damasco all'estremo confine settentrionale libanese, se li sta guadagnando tutti sugli ultimi settanta chilometri della Tripoli-Damasco. Il suo unico terrore si chiama Mustaqbal, «quelli di Hariri» sussurra passandosi l'indice sulla pappagorgia come chi s'immagina una fine da capretto. C'è da capirlo. Per il povero Mahmoud, siriano con targa siriana, le vere carogne sono i miliziani sunniti, gli amici del governo di Fouad Siniora, e tutti quelli che vogliono la Siria e l'Iran fuori dal Libano. Ma non ne fa grandi discussioni, preme solo l'acceleratore, buca come un siluro quest'alba libanese atterrita, svuotata, sbigottita.
Tripoli, Al Batroun, Byblos, Jounie, i settanta chilometri sono un balzo nel nulla, una manciata di minuti, un lampo nel chiarore d'una mattina nata senza vita. Al lungomare della capitale Mahmoud dice basta, infila la Dacia sotto una cavalcavia, spegne il motore, allunga la mano. «Halas Mister», finto signore, stende la mano, pretende ricompensa e un po' di umana comprensione. Al telefono Hayas, il portiere di notte del Cavalier Hotel nel cuore di Hamra, prima linea dei combattimenti, è preoccupato. «È sicuro di farcela? Avevamo cancellato la prenotazione, comunque se riesce ad arrivare la stanza c'è. Ma chi la porta?». Bella domanda. Sei e cinquanta. Una valigia e due borse a terra, una giornata di sole, un cavalcavia sulla testa, il deserto attorno. Elena l'interprete risponde subito. Non ha neanche la voce assonnata, ma non è più ad Hamra. «Da quando? Da ieri sera da quando mi sono beccata una pallottola di striscio sul piede, brucia da cani, mi hanno fatto fuori tutta la cucina, sono scappata, sto da amici cristiani ad Est, con Beirut Ovest ho chiuso, cambia zona pure tu...».
La crosta di ruggine inchioda un minuto dopo. La sua Datsun sembra sfuggita al colpo di grazia dello sfasciacarrozze, ma Riad per dieci dollari ti porta pure da Nasrallah. «Hamra no problem mister». Non per lui, ma vaglielo a spiegare al tizio davanti alla Bank of Beirut, all'incrocio tra la Hamra e la Rue Ibrahim Abdel. S'è alzato di buon'ora, ha teso l'orecchio, ha sbirciato in strada e s'è immerso nella sua disperazione. Barcolla sconfortato su quel tappeto di vetri e caligine, maledice gli sciiti di Hezbollah e quella bandiera rossa bianca e nera issata sulle sue rovine, quello sfregio sventolante al suo dolore. La strada ne è piena. Sono gli stendardi bianchi rossi e neri con simbolo svasticheggiante del «Partito social-nazionalista siriano», i militanti armati fedeli a Damasco che Hezbollah usa come ascari del terrore per seminar punizioni nel cuore di questa roccaforte sunnita. «Guarda, prima se la sono presi con la Bank of Beirut, poi hanno bruciato anche il mio negozio, ma chi mi manda fuori di matto sono i soldati... sono rimasti fermi, non hanno mosso un dito, fanno schifo. Stanno anche loro con Hezbollah, hanno tutti paura di lui... qui non comanda la democrazia, ma solo le armi, il nostro governo è troppo debole... siamo già condannati, prima eravamo la colonia della Siria, ora prendiamo ordini anche da Teheran». Dietro la Hamra, sulla strada che sale all'abitazione di Saad Hariri, figlio del primo ministro assassinato e simbolo dell'orgoglio sunnita, l'esercito ha schierato cinque blindati con le mitragliatrici spianate, cavalli di Frisia e i suoi migliori reparti. Qui la gente rincuorata dalle divise torna a far la spesa, riempie le borse, approfitta della tregua mattutina per riempire la dispensa e far fronte a nuovi giorni bui. «Ma c'è poco da star allegri, questa è solo una messa in scena - racconta convinta Nayla, 35 anni, insegnante d'inglese -. Vai giù verso il mare a Manara, il faro e troverai Hezbollah, sono ancora là... Da due giorni qui girano facce mai viste prima, ci controllano, vogliono comandare anche su di noi».
La paura del «grande fratello» arrivato a disegnare il nuovo ordine sciita è qualcosa di più di una voce. «Stai attento giornalista, ieri puntavano il kalashnikov su chiunque li riprendeva, hanno anche sparato in aria e portato via un paio di macchine fotografiche», avverte Harik, 36 anni, proprietario dell'unico negozio di telefonini aperto nell'arco di chilometri. Alle due del pomeriggio Hamra è di nuovo deserta. Di tanto in tanto dall'altura riecheggiano i colpi di kalashnikov. Giù, verso il centro, la strada è chiusa dai blocchi di uomini armati. L'esercito ferma tutti molto prima. Il Gran Serraglio, il palazzo del governo del premier Fouad Siniora è dietro i posti di blocco, circondato da una cerchia di miliziani amici in divisa blu, da una raggiera di soldati dall'incerta reputazione e dall'insidioso girone dei nemici dichiarati. Da quella fortezza isolata e assediata il primo ministro parla in diretta televisiva, si rivolge all'esercito, gli chiede di sgombrare le strade. Alle sei di sera l'Armée lo accontenta. Una colonna di camion e blindati si snoda sulla Corniche, scorta la ritirata sciita. Beirut sembra di nuovo libera.
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