Beirut, autobomba uccide deputato anti-siriano

Cinque ministri sciiti filosiriani annunciano la propria sospensione dal governo di Siniora

Gian Micalessin

La sua condanna a morte era già stata firmata. Tanto tempo fa. Attendeva solo di essere eseguita. Gibran lo sapeva. Sapeva che nulla poteva fermare gli esecutori. «Hanno goduto di un’impunità totale per trent’anni, non possono credere sia finita, per questo non riescono a fermarsi», ci raccontava Gibran Tueni quel giorno di giugno. Era appena stato eletto deputato, ma non era allegro. Nella sua redazione, negli uffici di An Nahar, il giornale fondato dal nonno, c’era una scrivania vuota. Samir Kassim, il suo miglior commentatore, era stato appena fatto a pezzi da una bomba.
Ieri mattina è toccato anche a Gibran. Era il suo primo giorno a Beirut dopo settimane a Parigi per sfuggire ai suoi sicari. Poche ore prima a New York il super poliziotto Detlev Mehlis aveva consegnato al segretario generale dell’Onu il nuovo rapporto sull’assassinio Hariri. Gibran pensa non sia il giorno giusto per colpirlo. Ha dimenticato o rimosso quello che lui stesso ci ha spiegato sei mesi prima. Alle nove il suo fuoristrada blindato e l’auto di scorta scendono la desolata stradina tra le fabbriche del quartiere di Mekalis alla periferia est di Beirut. Dalla sua villa, lassù sulla collina, un passaggio obbligato per la metropoli. Alla curva a gomito disegnata sul ciglio della scarpata il convoglio rallenta. Qualcuno preme il tasto di un cellulare, attiva l’innesco dei cento e passa chili d’esplosivo nascosti in un bagagliaio. La collina esplode in una vampata. Gibran e il suo fuoristrada, l’autista e la guardia del corpo al suo fianco, volano su quel mare di fiamme.
«Ho sentito l’esplosione, ho alzato gli occhi e ho visto l’auto in cielo», racconta un passante. Vola oltre il parapetto, rotola nella scarpata, si lascia dietro i tre corpi senza vita. Siham, la seconda moglie sposata pochi mesi fa, arriva venti minuti dopo. Ha lasciato le due gemelline appena nate. È corsa da Gibran. Non la fermano. Corre nella scarpata, si china sul corpo straziato, spinge via i barellieri, scuote la testa. Risale, continua a scuotere il capo, a scacciare l’orrore dell’ultimo ricordo. Quel volto sconvolto ripreso dalle televisioni racconta a Beirut, a tutto il Libano, che Gibran non c’è più. Ucciso a 48 anni dal Grande Nemico. Cinque anni fa era stato il primo a sfidarlo. Quel suo editoriale del 2000 sulla prima pagina di An Nahar, quella voce allora solitaria che chiedeva a Damasco di lasciare il Libano era stato l’inizio della rivolta. E della sua fine.
Gli assassini si fanno vivi poche ore dopo. Per l’occasione si firmano «Combattenti per l’unità e la libertà», ma quel comunicato posticcio ha i toni, la sfrontatezza e l’arroganza di sempre. «Continuava a diffondere veleno e menzogne nonostante i nostri avvertimenti, chiunque pensi di attaccare chi si è sacrificato per la causa araba e il Libano farà la sua stessa fine... abbiamo spezzato la penna di Gibran Tueni e chiuso la sua bocca per sempre trasformando An Nahar in una notte buia».
An Nahar, «Il Giorno», è il quotidiano di famiglia. Nonno Gibran l’ha fondato. Papà Ghassan ne ha fatto il simbolo dell’informazione libanese. Gibran l’ha trasformato nella prima linea della lotta all’occupazione. Ma in prima linea si muore. Gibran e i generali di An Nahar lo capiscono a ottobre. La prima bomba, cinque mesi prima dell’omicidio Hariri, è per il deputato druso Marwan Hamadeh, zio materno del greco ortodosso Gibran. Marwan si salva per miracolo, ma per mesi ad An Nahar non lo vede più nessuno. Poi a giugno è la volta di Samir Kassim. Gibran capisce che il suo momento s’avvicina. Vola in Francia, torna solo per lanciare nuove denunce. L’ultima di una settimana fa è contro il presidente filo-siriano Emile Lahoud. L’accusa per quella fossa comune venuta alla luce vicino al ministero della Difesa. È stata scavata nel 1990. Lahoud allora era capo di stato maggiore. È stata riempita con i cadaveri dei soldati ribellatisi all’occupazione siriana.
Ma ora l’unico cadavere è quello di Gibran. Le campane delle chiese greco ortodosse suonano a morto. Lo zio Hamadeh che, finalmente guarito, guida il ministero delle Telecomunicazioni, chiede di fermare la banda di assassini e minaccia di lasciare il governo.

Il premier Siniora chiede all’Onu di indagare anche su questo assassinio e, mentre Annan fa arrivare la «condanna nei termini più decisi possibili dell’assassinio», per tutta risposta i cinque ministri sciiti filosiriani e un alleato del Presidente annunciano la sospensione della loro partecipazione ai lavori del governo.
Il leader druso Walid Jumblatt non misura neppure una parola. Punta il dito sui siriani, li accusa di aver cercato la vendetta nel giorno della consegna alle Nazioni Unite del rapporto del super poliziotto Mehlis.

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