Beirut, la città dei grandi contrasti che canta e balla ma aspetta la guerra

Centri commerciali e quartieri di lusso La capitale è «mille volte morta e mille volte risorta». E nell'attesa di un'altra apocalisse si investe, si lavora e si spera

Marco Valle

da Beirut

Beirut è una città di contrasti lancinanti. A tratti scintillante e opulenta la «corniche» che ricorda un po' Dubai e un po' Cannes , all'improvviso diventa caotica, intricata, dimessa per poi rivelare, dove meno te lo aspetti, scorci d'antica eleganza. Tutto e il contrario di tutto. Luccicanti grattacieli e baracche in lamiera, deliziose villette con il tetto d'ardesia e condomini abbandonati, macerie bucherellate dalle mitragliate accanto a banche, ristoranti e negozi. Tutto e il contrario di tutto.

Dove batteva il cuore della città il vecchio mercato ottomano inghiottito dalle fiamme della guerra civile oggi c'è Beirut Souks, il nuovo quartiere commerciale disegnato dall'architetto spagnolo José Rafael Moneo Vallés per Solidare, la Societé libanaise de rencostruction creata dal premier Rafiq al-Hariri assassinato nel 2005. Una sorta di Porto Cervo con duecento boutiques, 25 ristoranti e caffè, 14 cinema pensata e realizzata per il turismo del lusso. Un complesso troppo perfetto (e troppo costoso) per i beirutini che continuano a non amarlo, a snobbarlo. Dell'antico quartiere levantino inghiottito dalla modernità rimane, in fronte agli shop e un avveniristico centro commerciale in costruzione, soltanto un unico grande palazzo. Solitario e orgoglioso come un signore decaduto o un veliero naufragato. L'edificio vuoto, crivellato di colpi, sporcato dalle fiamme rappresenta la memoria, ricorda la follia degli uomini che qui si sono combattuti e uccisi nella terribile guerra civile 1975-1989 (150mila morti, 900mila emigrati, due milioni di profughi) che ha lacerato e straziato quella che un tempo era la «Svizzera del Medio Oriente».

Eppure Beirut non è per nulla una città malinconica, triste. Anzi. Ogni sera ristoranti, bar, discoteche si riempiono di una folla colorata, festante. È la movida libanese che si snoda dal lungomare di Manara ai quartieri cristiani frequentati anche dai musulmani in cerca d'alcol, musica e allegria di Gemmayzeh, Mar Mikhael, Ashrafieh, Borj Hammoud e Badaro. Un rimbombare di risate, grida, musica. La canzone più gettonata è un vecchio successo del 1978 di Gloria Gaynor, I will survive. La cantano tutti: sulle porte dei localini, ballando sui tavoli, per strada. Giovanissimi e meno giovani. Un modo come un altro per esorcizzare una pace precaria o una guerra sospesa. Le parole di Gloria sono forse il vero inno di questa città crapulona e bigotta diciotto sono le confessioni religiose che in qualche maniera vi convivono , luccicante e lurida, cinica e spregiudicata. I will survive, l'agrodolce jingle della capitale della Fenicia «mille volte morta, mille volte risorta». Parole della poetessa Nadia Tuénie.

Scrive il romanziere Elias Khoury «il rapporto tra memoria e presente pone uno degli interrogativi più importanti del dopoguerra libanese». Ha ragione. Qui il passato è presente. Ovunque. Nell'attesa di un'altra apocalisse tutti si chiedono se e quando gli Usa e Israele attaccheranno l'Iran e cosa allora faranno gli sciiti di Hezbollah, oggi alleati dei cristiani e domani chissà... ci si diverte, si balla e si beve e, intanto, qualcuno investe, progetta, ricostruisce.

Tra i simboli più potenti della possibile rinascita libanese vi è il Museo Nazionale, un elegante complesso costruito durante l'amministrazione francese (1920-1943) in cui è raccolta l'intera storia di questa terra. Un percorso affascinante che parte dalla preistoria, attraversa il tempo fenicio, l'epoca greca e romana, la parentesi bizantina e arriva sino al periodo mamelucco e ottomano. Mosaici, statue, steli, bassorilievi, vetri e gioielli. Un patrimonio unico. Tra tanti capolavori spicca l'elegante sarcofago del re Ahiram di Bibyos. L'opera fa corpo unico con quattro splendidi leoni che la sostengono ed è istoriata dalla più antica iscrizione in caratteri fenici il prototipo di tutti i successivi alfabeti a noi nota: un anatema del sovrano contro i violatori di tombe. Purtroppo le maledizioni di Ahiram non servirono a proteggere il Museo dalla furia delle milizie. Durante la guerra civile l'edificio restò posizionato sulla «linea verde», il fronte tra cristiani (libanesi) e musulmani (per lo più palestinesi) e divenne una trincea, un bunker. Un obiettivo da cannoneggiare, distruggere.

In quei giorni tremendi il vero eroe fu il direttore Maurice Chehab che riuscì a salvare i reperti murando letteralmente gran parte delle opere. I mosaici vennero ricoperti con uno strato di cemento mentre le statue e i sarcofagi furono racchiusi in casse di legno e poi ricoperti di calcestruzzo. Un lungo silenzio e, infine, la pace e la riapertura. I danni erano ingenti e i soldi mancavano. Per fortuna nel 2009 l'Italia (governo Berlusconi, per la cronaca) intervenne e il museo riprese vita e splendore con il restauro di tutti i reperti e l'apertura di un piano sotterraneo in cui sono esposte anche tre mummie del XIII secolo. Il merito è di Eurac, il centro bolzanino che ha salvato la mummia di Otzi, l'uomo preistorico ritrovato sul ghiacciaio del Similaum.

A poca distanza dal Museo un altro simbolo: Beit Beirut, l'edificio noto come la casa gialla. Come ricorda la facciata grattugiata dalle pallottole, durante il conflitto questa palazzina in stile neo ottomano fu uno dei capisaldi delle milizie cristiane. All'indomani della pace ne era prevista la demolizione ma un gruppo di architetti, intellettuali, artisti si oppose: la casa doveva diventare un luogo della memoria. Nel 1998 divenne proprietà del Comune e nel 2006 fu deciso di trasformarla nel Museo di Storia. Nel 2013, infine, il complesso è stato ricostruito nel rispetto della forma originaria e senza celare le ferite.

Nelle sale si alternano mostre sulla tragedia e la ricostruzione post bellica. Nel silenzio s'indugia davanti a immagini durissime che colpiscono e turbano il visitatore e qualche squarcio di speranza. Beirut è anche questo.

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