Controstorie

Belgrado ora si allontana e guarda a Russia e Cina

La questione Kosovo chiude le porte all'ingresso nell'Ue e spinge i serbi a nuovi accordi verso Est

Serenella Bettin

da Belgrado

Dopo avere lasciato la Repubblica serba di Bosnia Erzegovina, partiamo alla volta di Belgrado. Ma prima di imboccare l'autostrada, al confine tra la Bosnia e la Croazia, c'è il campo di concentramento di Jasenovac. Il più grande lager dei Balcani nella seconda guerra mondiale. Il terzo dopo Auschwitz e Buchenwald. Impossibile non fermarsi. Qui, le persone che ci arrivavano venivano uccise con una brutalità bestiale. Alcuni morirono di fame, altri di sete. Di stenti. Altri congelati con i liquidi in pancia. Venivano scuoiati. Sgozzati. Presi e cannibalizzati. Alcuni decapitati. Bruciati. Affogati. Molti assistevano alle esecuzioni. Lo srbosjek, il tagliaserbo, era un coltello speciale, sempre fisso al polso, con una lama all'ingiù che serviva a sgozzare le persone in un colpo solo. Un frate, Peta Brzica, in una sola notte ne scannò 1.360. C'erano settimane in cui il fiume Sava, che ora ci scorre accanto, era perennemente tinto di rosso. Erano serbi. Rom. Ebrei. Il religioso che dirigeva il campo, Miroslav Filipovic Majstorovic, lo chiamavano Frate Satana. Frate Satana diceva messa. Uccideva e poi pregava. Un rito meccanico, chirurgico. Uno di quei riti che gli uomini non hanno dimenticato, ma dove la storia non ha insegnato nulla. E in questo immenso campo verde, il rumore dell'accendino che accende la sigaretta è l'unico in questo silenzio spettrale.

Ci rimettiamo in viaggio alla volta di Belgrado. Ci accompagnano tre mezzi dell'associazione Love. Arriviamo alle otto di sera. La fitta e incolta vegetazione della Bosnia ha lasciato spazio al cielo grigio della Serbia. A mano a mano che cala il buio e ci avviamo verso la capitale, le gramigne lasciano posto ai palazzi, alle luci, ai grattacieli. La Dubai dei Balcani la chiamano, la New York della Serbia. Perché è bella Belgrado, bella davvero. È bella da far venire i brividi. La città è un intreccio di colori, di sapori, di foglie colorate, un via vai di scoiattoli che saltano sul prato e si arrampicano sugli alberi. Belgrado è un insieme di canti, di balli la sera, di cani randagi e di vecchiette che vendono lenzuola lungo le strade. C'è un'anziana che dà da mangiare ai piccioni, un pianista che suona in mezzo alla gente, i ragazzi che giocano a palla e i pensionati che si sfidano a scacchi.

Un libro, cadutoci tra le mani per caso, parla della magia di Belgrado, The Magic of Belgrade. Momo Kapor, il suo autore, morto nel 2010, era arrivato a Belgrado partendo da Sarajevo a nove anni e ha iniziato a raccontarla. A illuminarla. Storie, frammenti, aneddoti. Un nativo di Sarajevo che racconta la Serbia. Eppure, si sono fatti la guerra. Una delle più atroci: fratelli contro fratelli, amici contro amici, mariti contro mogli. A vent'anni dalla fine, a vent'anni da quando la Nato bombardò Belgrado, impossibile dimenticare. Popoli della stessa vecchia nazione, prima che la Jugoslavia si dissolvesse, perennemente in conflitto. La Bosnia con la Serbia. La Serbia con la Bosnia. Una Serbia che non vuole entrare nella Nato ma che attende ancora l'ingresso nell'Unione europea. E l'ago della bilancia è il riconoscimento del Kosovo che riaccende i riflettori. Un problema, quello del riconoscimento internazionale che è solo una delle questioni che il Kosovo deve ancora risolvere. Il giochetto mosso alla Serbia è che se per entrare nell'Unione europea, occorre riconoscere il Kosovo, allora non sarà mai. «La Nato ha bombardato la Serbia per il Kosovo - spiega al Giornale, Jovan Palalic ora segretario generale del Partito popolare serbo ed eletto al suo quinto mandato all'Assemblea nazionale serba nel 2016 - voleva che il Kosovo fosse un paese indipendente, ma per i serbi non lo sarà mai, il Kosovo è parte della Serbia». Un Paese, la Serbia, che andrà a elezioni l'anno prossimo e dove se arrivi con un visto dal Kosovo lo considerano uno smacco. Impossibile accettare il visto di un Paese che non riconoscono. «Riguardo all'Unione europea - continua Palalic - non possiamo dire che la Serbia non voglia entrare, ma ora il processo è bloccato per la posizione di Macron. La Francia non vuole l'allacciamento dei Balcani all'Ue. Macron ha problemi in Francia e secondo me sono problemi domestici».

Il presidente della Repubblica di Serbia, Aleksandar Vucic, però, vorrebbe scendere a compromessi con il Kosovo e ha aperto un dialogo. A cui il Kosovo avrebbe risposto picche. «La Serbia - ci dice Palalic - vuole parlare con il Kosovo. Vogliamo un compromesso, tutto si può fare, ma dentro la nostra risoluzione dove il Kosovo è parte della Serbia». E quindi se la prospettiva è che la Serbia venga estromessa dall'Ue, allora meglio stringere accordi con Cina e Russia. «Due settimane fa - ricorda Palalic - abbiamo stretto un accordo con l'Unione economica euroasiatica per il libero mercato, possiamo esportare merce senza dazi doganali. Un'opportunità anche per le aziende italiane». Un convegno a Verona un mese fa ha lanciato un monito agli italiani per investire in Serbia ed evitare le sanzioni russe. Non solo. Il governo serbo ha schierato i poliziotti cinesi accanto ai propri. E i rapporti con la Bosnia? «In questo momento sono complicati perché non c'è un governo in Bosnia - spiega Palalic -. Noi vogliamo mantenere l'Accordo di Dayton, i musulmani invece vogliono distruggere il potere della Repubblica serba. Non è una guerra tra Serbia e Bosnia ma è una guerra tra musulmani croati e serbi ortodossi che vivono in Bosnia». Già una guerra. Ancora la guerra. Così tornando in Italia, lungo la via del ritorno, una domanda continua a martellarci.

Perché ancora tutto questo odio? «Troppo male è stato fatto», ci aveva risposto un ragazzo di Sarajevo.

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