È una bella Biennale, ma sembra retrospettiva

L'effetto è quello di un'antologia del Novecento Tanti italiani nel mondo e poco contemporaneo

È una bella Biennale, ma sembra retrospettiva

Una bella grande antologia della buona arte del Novecento, soprattutto italiano, nel mondo. Italiani emigrati in Brasile, in Argentina, in Indonesia, e oggi altri emigranti che sbarcano, dall'Africa, dai confini del mondo, inevitabilmente in Italia. Finalmente quadri, molti bei quadri, e una buona caccia di un critico curioso, Adriano Pedrosa, di buona formazione, di buon gusto, come una Margherita Sarfatti, un Ugo Ojetti, un Fortunato Bellonzi, anche se contaminato dalle mode queer, lgbt, woke che lo inducono a favorire minoranze vere e supposte, ma senza rinunciare alla sua sensibilità e al suo istinto.

Lo ha mostrato alla Biennale di Venezia con molto temperamento. Pedrosa è stato scelto per le sue idee dal presidente Oberto Cicutto, e non con un concorso per nullafacenti inesistenti (un buon curatore non partecipa a concorsi: fa buone mostre). Così ha girato i meridioni del mondo trovando artisti e dipinti dimenticati, marginali, talvolta grandi, sconosciuti e anche riconosciuti. Finalmente felicità per gli occhi, come in un museo che esibisca i suoi preziosi depositi, un museo di Stranieri ovunque. Dico allora al bravo Pedrosa: perché non Elisa Maria Boglino, perché non Emilio Ambron, perché non Ivan Theimer, perché non Eugene Berman, perché non Peikov, stranieri in Italia o italiani all'estero? Quale è il criterio, oltre al gusto o alla quantità di conoscenze per le scelte di questa Biennale? Essere stranieri, sembra, in un'impresa di riscatto che investe un secolo.

Osserviamo molte belle opere che ci colpiscono. E formidabile è l'ambiente delle Corderie dove sono esposte riproducendo la disposizione della architetta italiana Lina Bo Bardi al Masp di San Paolo del Brasile. Il suo «cavalletto in vetro» è un dispositivo leggendario nella storia degli allestimenti. Concepito per la pinacoteca del Masp e presentato per la prima volta all'inaugurazione del museo nel 1968, è costituito da una spessa lastra di vetro inserita in un cubo di cemento, a formare un pannello trasparente autoportante su cui viene appeso il quadro. La didascalia relativa sta sul retro, in modo che il visitatore possa all'inizio entrare in contatto con l'opera senza alcuna contestualizzazione storica. In uno spazio di 2000 metri quadrati, i cavalletti sono distribuiti in file come in una parata o come in una foresta di opere d'arte. Staccate dalle pareti, le opere diventano più accessibili permettendo al visitatore di stabilire con esse un rapporto più stretto e diretto.

Pedrosa porta con sé la sua formazione in Brasile. Giri e vedi: Galileo Chini, La notte al Watt Pha Cheo, 1912; Gino Severini, Natura morta, 1918; Tina Modotti, Falce, pannocchia e cartuccera, 1928; Mario Tozzi, Il pittore, 1931; Romualdo Locatelli, Legong Dancer, 1939; Costantino Nivola, Bozzetto Olivetti, 1953; Gianni Bertini, La tela di Penelope, 1959; Bona de Mandiargues, Toro nuziale, 1958; Aligi Sassu, Tobiolo, 1965; Domenico Gnoli, Sotto la scarpa, 1967. Bene. Certo. Italiani ovunque. Ma perché Severini del 1918 e non Modigliani? Perché Filippo de Pisis e non Stanislao Lepri? Tutti italiani a Parigi. Perché Galileo Chini e non Emilio Ambron? Entrambi italiani in Oriente. Quale è il criterio? La curiosità e l'estraneità. Con orgoglio, in quasi ogni scheda, leggiamo: «L'opera di ... è esposta per la prima volta alla Biennale Arte». Appare un requisito pressoché necessario. Dipingere ed essere diversi. E trascurati, emarginati. Di quasi ogni artista esposto si specifica che è omosessuale. Alla fine, più che una distinzione, diventa una specie di ghetto.

In due sale sono selezionati come se fosse una scuola: Nedda Guidi, Louis Fratino, Gabrielle Goliath, Bhupen Khakhar, de Pisis. Basta che sia omo. Fino a Anonymous Homosexual di Dean Sameshima. Ma cosa c'entra? Quando mai un grande artista come de Pisis è stato esposto solo perché omosessuale, e con una serie di brutti quadri, fuori contesto e solo perché di soggetto omoerotico? Stile, ricerche, storia sono subordinati alle inclinazioni sessuali, senza limite e pudore. E l'esclusione sociale e la discriminazione prevalgono sulla qualità degli artisti anche nella sezione delle due sale più personali e caratterizzate dal curatore: «Ritratti». Molti recuperi, molte croste, se si escludono Affandi (Indonesia), Chua Mia Tee (Singapore), Olga Costa (Messico), Raquel Forner (Argentina), Hendra Gunawan (Indonesia), María Izquierdo (Messico), Lê Pho (Francia), Roberto Montenegro (Messico), Camilo Mori (Cile), Candido Portinari (Brasile), Edna Manley (Giamaica), Emilio Pettoruti (Francia), Mahmoud Saïd (Egitto), Doreen Sibanda (Zimbabwe). In questo contesto anche Frida Kahlo è retrocessa a etnica. E anche Wifredo Lam. Non ci sono gerarchie e si livella verso il basso, al documento, senza pretese di qualità. E c'è anche molta concessione al folklore. Vedi Andrés Curruchich e Rosa Elena Curruchich (Guatemala), o Pacita Abad (Filippine), o Philomé Obin (Haiti), quasi naïf, mai ammessi alla Biennale. Pedrosa fa il suo capriccioso museo, manifesta le sue predilezioni, io godo di molte sue scelte. E capisco l'ingenuità di altre. Sono stato tra i primi a rilanciare Gnoli, quarant'anni fa; forse il solo a scrivere una monografia su Romualdo Locatelli; mi sono occupato di Nivola e de Pisis. Ma tutti loro, rapsodici, in tempi comunque lontani, cosa c'entrano con la Biennale del 2024?

Si chiama Biennale perché testimonia la produzione degli artisti del mondo (e mai come questa volta non sono solo nei Padiglioni nazionali) negli ultimi due anni. La Biennale non ha il compito dei musei storici di fare retrospettive, di raccontare la storia. Il contemporaneo è il suo dominio. E invece guardiamo con occhi nuovi e con stupore artisti consacrati e riconosciuti che potevano essere nuovi nelle Biennali del 1954, del 1958, del 1966. E che lo furono. C'è da compiacersi di vedere oggi alla Biennale Gnoli, ma non vi fu in vita, né nel 1964, né nel 1966, né nel 1968, né nel 1970, quando morì a 37 anni. Che senso ha vederlo oggi? Pedrosa ama la pittura, e ci dà piacere. Ma quale tempo, quale epoca, quale sensibilità documenta? De Pisis omosessuale a Parigi nel 1928? Che senso ha oggi, e per chi? E per quale necessità, per quale utilità, che non sia un compiacimento estetico, un piacere edonistico, un gusto etnico o alla moda?

In tempi di guerra, di indicibile violenza, di orrori e di intolleranze, questa visione irenica, esotica, di evasione, non ha un involontario retrogusto coloniale? In tanto disincanto non si afferma un disimpegno? Una cosa è Bacon, una cosa le delicate garze di Gaza di Dana Awartani.

Quanta decorazione in questa Biennale? Magari con ambizioni e intenzioni ideologiche dichiarate, «contro le discriminazioni o le forme di violenza nei confronti di esseri umani storicamente emarginati o sottorappresentati, come le persone nere, marroni, queer e femme», ma contraddette dalla felicità delle immagini, dalla festa della pittura. Grazie agli artisti, nonostante Pedrosa. E, in fondo, anche il siciliano Buttafuoco è straniero a Venezia.

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