Dopo i restauri, la Torre di Pisa, uno dei più noti monumenti italiani, è tornata a essere la Torre di Pisa. Niente più «imbragature» tecnologiche, niente tiranti e contrappesi, niente più segni visibili di quegli interventi che nel corso di undici anni hanno permesso il consolidamento del terreno circostante e quindi di riassestare la pendenza della torre di circa quaranta centimetri. Ancora non è concluso il restauro delle superfici, ma si tratta solo di qualche mese d’attesa.
Un rimedio provvidenziale che ha riportato quasi alla normalità una situazione che rischiava di degenerare: la debolezza del fondo paludoso su cui poggia la torre e gli eccessivi carichi di peso provocati dai tanti turisti che salivano sull’edificio stavano accentuando in modo pericoloso la leggendaria pendenza del campanile. Si è perciò attuato un delicato piano di rafforzamento strutturale, un po’ con iniezioni di cemento sul terreno, un po’ con una cerchiatura rigida attorno al basamento. Certo, al momento attuale rimane un’incognita la reazione della torre ai tempi lunghi di «assorbimento», ma non dovrebbero esserci sorprese.
La Torre di Pisa, ovvero il campanile del Duomo che Bonanno e Giovanni di Simone hanno innalzato negli ultimi decenni del XII secolo, è stata naturalmente progettata per essere dritta. Il suo particolare bilanciamento “verticale”, diverso da quello del vicino Duomo o del Battistero, ha causato lo sprofondamento che gli ha conferito la caratteristica pendenza, probabilmente già al momento dell’erezione.
A essere rigorosamente «filologici», dunque, dovremmo pensare a raddrizzare completamente la Torre di Pisa, a darle quell’aspetto regolare che i suoi architetti avrebbero voluto.
Perché, allora, non si è approfittato di quest’ultimo intervento? È una domanda per niente banale e scontata, indipendentemente dal fatto che l’intervento sia davvero realizzabile.
La risposta è comunque chiara: perché la pendenza, sebbene involontaria, è diventata un carattere talmente fondamentale nell’identità storica del monumento da risultare irrinunciabile. Se così non fosse, la Torre di Pisa non sarebbe “la Torre di Pisa”; per meglio dire, non sarebbe come è entrata nella memoria di infinite generazioni di uomini, nella loro immaginazione, nelle loro sensazioni. Sono valori storici e culturali, questi, che non contano meno di quelli legati all’originalità delle intenzioni artistiche; un monumento, come ha ribadito la Carta di Cracovia, non è mai uno stato temporale “congelato”, è piuttosto l’insieme delle modificazioni che il tempo ha inferto su di esso e che sono stata adottate dalla collettività come motivo d’identificazione.
Se un intervento finisse per alterare l’identità del monumento, esso andrebbe bloccato e annullato, ripristinando l’aspetto precedente; così si dovrebbe fare se a qualcuno venisse in mente di raddrizzare completamente la Torre di Pisa, facendo quello che neanche Bonanno e Giovanni di Simone avevano fatto. Vorrebbe dire falsificarla, cancellarne la storia reale in nome di una storia «ideale» che non è stata, o che comunque non può contare come quella concretamente verificatasi.
Ogni volta che ci troviamo davanti a un monumento da restaurare, che sia un’architettura, un dipinto o una scultura, dovremmo sempre ricordare il «quesito della Torre di Pisa». Dovremmo, cioè, renderci conto fino a che punto abbia senso avere come obiettivo il ripristino di un presunto aspetto originario, talvolta non corrispondente all’identità storica.
Perché intonacare Urbino, se per la collettività che la abita Urbino deve essere “nuda” come l’Ottocento l’ha voluta? Perché pulire la Lupa Capitolina e il Perseo di Benvenuto Cellini fino a farli sembrare appena usciti dalla fonderia? Non si tratta di operazioni insensate e falsificanti come sarebbe quella di voler cambiare l’inclinazione della Torre di Pisa?
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