La visione di un dipinto di Giovanni Bellini procura felicità. In qualunque chiesa, palazzo, museo tu lo incontri, Bellini ti parla di un luogo reale, di una natura reale, dove Dio e l'uomo convivono, dominato da un ordine arcano. Per nessun artista è più propria la formula di Spinoza: «Deus sive natura». Certamente il grande filosofo olandese non conosceva Giovanni Bellini (ca. 1435-1516), ma esprimeva con le parole un sentimento di Dio che aveva la stessa matrice. Il suo pensiero ha una semplicità e una coerenza logica che sembrano specchiarsi nei paesaggi del grande pittore veneziano. Spinoza non materializza Dio; anzi divinizza il mondo: la natura è divina, e dev'essere compresa ed amata.
Quando noi guardiamo un paesaggio di Bellini vediamo Dio. Questa corrispondenza spiega perché Bellini sia un pittore così profondo, e non un vedutista o un paesaggista o un pittore di una campagna rurale come Cima da Conegliano, il suo meraviglioso allievo. Bellini è un filosofo. Non descrive, pensa la natura, che è prova dell'esistenza di Dio; ed è assai rilevante che lui, veneziano, diversamente dall'altro suo allievo Vittore Carpaccio, non abbia mai dipinto Venezia, magari contaminata da architetture orientali; e raramente l'acqua, e più di lago che di mare, come vediamo nel Battesimo di Cristo nella chiesa di santa Corona a Vicenza, rito che avviene nel lago di Fimon, luogo più di ogni altro arcano, nella profondità del tempo. E quando l'acqua appare come nella mirabile Sacra conversazione Giovannelli, delle Gallerie dell'Accademia, dove fra i protagonisti si vede una solida e fortificata città sull'acqua, con un taglio di azzurro intenso alla Mondrian, non è Venezia, non è una città di mare. Dietro, colline e montagna e pievi nella campagna ci parlano sempre di un lago fortemente antropizzato e di una terraferma vicina, tra Brescia e Verona.
Il veneziano Bellini predilige essere veneto e, quando pensa alla natura, pensa alla campagna veneta. Ma la pensa, non la vede, perché quella campagna è dentro di lui come un'essenza.
Nel visitare la mostra del Musée Jacquemart-André, a Parigi, noi vediamo Bellini misurarsi prima di tutto con il padre Jacopo, che traduce in lingua veneta le suggestioni e le evocazioni di Gentile da Fabriano e di Pisanello, pittori di corte il cui obbiettivo è trasformare il potere in sogno. In questa impresa Giovanni ha a fianco, ai suoi esordi, il fratello Gentile, con il quale inizia la trasfiguarazione in essenza spirituale del linguaggio gotico internazionale. Lo si vede nella Madonna con il bambino del museo Piersanti di Matelica, icona fatta donna, con il respiro della vita, acceso dalla luce del volto, sulla veste di un rosso tenue. Non possiamo staccarci da quel volto incantato di regina, da cui deriveranno tutte le belle Madonne di Giovanni. Gentile trasfigura in luce la carne, mentre lentamente Giovanni le ridarà respiro, alito, morbidezza, profumo. Non idoli ma donne sono le sue madonne, in dialogo difficile con il tetragono cognato Mantegna che procede a far rivivere le statue antiche, a tradurre in carne il marmo, di cui sempre resta un residuo che viene dall'idea di un primato dell'arte antica, anche con Donatello, presente a Padova tra il 1443 e il 1452.
Mantegna consacra l'archeologia, la cristianizza, Donatello la dissacra, Bellini la dimentica e umanizza qualunque fonte, qualunque riferimento, anche grazie a un maestro che spesso si dimentica, da cui ruba la morbidezza degli incarnati: Michele Giambono, fra i grandi maestri del suo tempo. Bellini si muove nel nome dell'umano e della sacralità dell'umano, che lo rendono più spirituale dell'unico artista che ha cercato (ed espresso) un'analoga sintesi tra umano e divino: Raffaello. E anche nel confronto con lui, così grande, Bellini non cede. La naturalezza di Raffaello è la cifra costante di Bellini.
Ce lo dicono, dopo la prima fase nella importante e arcaica Madonna con il bambino di collezione privata, in mostra a Parigi, l'assorta Madonna di Berlino e quella del Museo di Castelvecchio a Verona, non con il paesaggio fluviale, ma come sollevata in cielo, o l'altra, umanissima, con il bambino con il dito in bocca contro una tenda rossa, sempre a Berlino, o quelle contro il fondo oro, senza residui bizantini, di Ajaccio e ancora di Berlino.
Come Bellini arrivi a questa purificazione della forma, che ritroviamo anche in soggetti drammatici come le Crocefissioni (presenti quelle del Museo Correr di Venezia e della Galleria Corsini di Firenze, assente quella mirabilissima già Nicolini da Camugliano) ce lo dicono le parole penetranti di Roberto Longhi: Bellini è «uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l'antico, d'intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco; eppure sempre lui, caldo sangue, accordo pieno e profondo tra l'uomo, le orme dell'uomo fattosi storia, e il manto della natura». E ciò che abbiamo detto delle sue Madonne può dirsi anche del processo di umanizzazione dei suoi ritratti, in rapporto con quelli severi di Antonello da Messina che incontra a Venezia, come più tardi Durer.
La coincidenza tra umano e divino appare anche nei suoi Cristo in pietà: a Parigi si vede quello sublime di Berlino con i due angeli adolescenti, impermeabili, nella loro grazia, al dolore. Indimenticabili quello più antico di Brera, risposta al Cristo morto di Mantegna, di cui è vicino di stanza, e quelli di Rimini e dei Musei Vaticani (per la Pala di Pesaro). Bellini ha una tensione costante con variazioni continue, nella stabilità di un'anima pacificata che non ha solo fede ma ragione in Dio, che è un Dio certo, dentro di lui. Così è per quattro decenni, fino alla Pala di San Zaccaria, di cui è sintesi la purissima Madonna con il bambino della Galleria Borghese. Un'imprevedibile inquietudine sembra sfiorarlo ai suoi tardissimi anni, quando trasforma la Pala d'altare, da lui stesso concepita in concerto con Antonello, in una composizione monumentale potentemente statuaria, con San Girolamo, San Cristoforo, san Ludovico da Tolosa, per la chiesa di San Giovanni Crisostomo a Venezia. Siamo nel 1513. Emozioni nuove attraversano la mente di Bellini. Ed ecco allora, più giorgionesca di Giorgione ed elegante come un busto di Tulio Lombardo, la giovane Donna allo specchio del Kunsthistorisches Museum di Vienna, del suo ultimo anno di vita: un delicato inno alla bellezza femminile, contemplata e desiderabile, senza idealismi, tra l'interno di una stanza e un paesaggio collinare contro il quale si impone alla nostra attenzione un vaso di vetro con essenze. L'ultimo atto di Bellini è una nuova interpretazione della Venere di Botticelli, calata nella quotidianità di una giornata tranquilla, attraversata da un'emozione nuova. E se qui è l'allievo Giorgione, perduto già cinque anni prima, a ispirare un grande vecchio curioso dei giovani e infinitamente giovane, è Tiziano a guidare l'ispirazione del suo ultimo capolavoro: L'ebbrezza di Noè del museo di Besançon, con il delicatissimo e impossibile nudo di vecchio fra i giovani figli agiti da istinti brutali, in una nuova percezione del peccato, e la fragilità della tazza di vino in bilico in primo piano. Un'opera potente, di un uomo turbato nella imminenza della morte. Il sonno di Noè è l'addio alla vita di Bellini.
La mostra ci riserva una sorpresa: un piccolo rilievo di Donatello, proveniente dalla chiesa di San Gaetano di Padova, concepito in quel fertile decennio di dialogo con gli artisti veneziani.
Cristo è un uomo straziato, con il dolore degli angeli che lo assistono, mentre le due donne in basso, immerse nel sarcofago, sembrano calarsi per riemergere, come in una visione di Bill Viola dove le figure si muovono nell'acqua. È il saluto di un grande fiorentino, drammatico e tragico, al sereno e pacificato Bellini.
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