Bencovich esce dal buio per dipingere sogni

Il Cristo spettrale e argenteo è un altissimo esempio di arte incorporea. Che ci rimanda a El Greco

Bencovich esce dal buio per dipingere sogni

Protetto dalla nebbia, nel cuore della Valle Padana, in una casa accogliente di Soncino, con tanti oggetti rari e preziosi, ceramiche, dipinti e incisioni, vive Antonio Binda, a pochi metri dalla casa degli stampatori ebrei di Spira, la città tedesca vicino a Magonza, da cui si allontanarono per sfuggire alle persecuzioni. Soncino ospita, nella casa che fu del medico rabbino Israel Nathan e poi di Gershom Soncino, il Museo della Stampa.

Binda, stampatore, non poteva trovare migliore sede, e ha deciso così di fondare le edizioni dei Soncino, eredità e omaggio di una grande tradizione. Lo conoscevo da ragazzo per i suoi agili libri su Francesco del Cossa e Boccaccio Boccaccino. Ho iniziato a frequentarlo assiduamente, arrivando a Soncino, una o due volte all'anno, quando fondò l'impegnativa e benemerita «Collana di Opere Complete» di pittori tanto importanti quanto poco conosciuti, da Orazio Borgianni a Michele Desubleo, da Spadarino ad Assereto, da Langetti a Riminaldi, fino a quelli, ancora più impervie, di Carl Loth e Sebastiano Mazzoni. Libri belli, pieni di illustrazioni, rigorosi per scienza e conoscenza. Quest'anno si è concesso un volume altrettanto rigoroso, ma di ampia documentazione di un genere. Non quindi una monografia, ma Teatri del sacro e del dolore. I compianti in Lombardia e Piemonte tra Quattrocento e Cinquecento, con ampi testi e approfondite ricerche di Renzo Dionigi e Filippo Maria Ferro. Non vi poteva essere scelta più tempestiva, nei legami remoti e imprevedibili che da anni ci uniscono, di un libro come questo, uscito nell'anno presente, in cui mia sorella Elisabetta è diventata presidente dell'Ente di gestione dei Sacri Monti. Libri luminosi, pesanti (in senso buono), ricchissimi di notizie e di dottrina.

L'altra notte, arrivato a Soncino per ritirarne alcuni, tra limiti e divieti, nelle città umiliate e chiuse, fu come una festa, con convenevoli, baci, vicini accorsi a interrompere il malinconico silenzio di tante sere. E fu così che Binda, estraendo la monografia di Gabriele Crosilla sul raro Federico Bencovich (1677-1753), mi mostrò alcune immagini, con il suo potente e contenuto entusiasmo. Si trattava della Deposizione dalla croce, monumentale (e spirituale) dipinto conservato a Borgo San Giacomo, paese mai prima sentito ma oggi per lui centrale e luminosissimo. Così, verso le 21,30, con l'incubo del coprifuoco ma l'entusiasmo dei neofiti che stavano intorno a me e a Binda, parenti e amici, Leonardo e Roberto, iniziamo la ricerca del sindaco e del prete di Borgo San Giacomo.

Il sindaco, mi avvertono gli amici, è comunista, il giovane consigliere (di Orzinuovi) che è con me, è della Lega. I paesi sono vicini, ma comunicano poco. Chiamo allora la Batteria del Viminale, il centralino che assiste i deputati, per collegarmi con la Prefettura di Brescia, che tarda a rispondere. Quando riesco a parlare con il solerte funzionario, mi informa che la caserma di Orzinuovi è chiusa e che occorre rivolgersi a quella di Verolanuova. Ma la ricerca è infruttuosa, i carabinieri non riescono a raggiungere Don Fausto, il parroco di Borgo San Giacomo. Roberto ha però il numero dell'organista di Borgo e verso le 21,50, nel clima di cospirazione che si è stabilito, osa chiamarlo per ottenere il numero di Don Fausto. Sulla soglia delle 22 lo chiamo io, risponde una voce cordiale, nella quale c'è la penombra del timore che a quell'ora, nei paesi deserti, qualcuno voglia fare uno scherzo. Lo rassicuro e, ancora incerto, prende tempo per accertarsi di trovare le chiavi per la chiesa di Castello. Finalmente alle 22,10 Don Fausto richiama e possiamo partire.

Ci aspetta un piccolo gruppo di ragazzi dell'oratorio che mi accompagnano alla chiesa, dove trovo il prete gentile e un pittoresco sacrestano un po' punk. Sull'altare laterale, osservano, in ammirazione con me e grazie alla mia fida pila, un'opera di grandi dimensioni in cui i personaggi galleggiano nel vasto spazio. Federico Bencovich non vede, ha visioni; e il suo Cristo spettrale e argenteo sguscia, luminoso, tra la madre che lo sostiene in alto e la Maddalena distesa ai suoi piedi. Intorno, San Carlo Borromeo, San Giacomo della Marca, San Giovanni da Leonessa. Lo sfondo di natura, indefinito, è molto ampio (la tela è gigantesca, 435x256 cm). È evidente che il pittore dalmata dialoga con i veneziani, in particolare con il Piazzetta. Ma se in Piazzetta c'è ancora memoria del naturalismo caravaggesco e di una energia plastica, anche nei personaggi mistici, in Bencovich la realtà è pragmaticamente elusa per una pittura incorporea, come poi sarà in Füssli. Oltre all'evanescente tavolozza, anche dettagli realistici, come le mani che accompagnano l'invocazione di San Giacomo della Marca, hanno qualcosa di trasfigurato che trova il suo solo antefatto (per altro certamente incognito a Bencovich) in El Greco.

Ecco: Bencovich è l'El Greco del Settecento. Lo dice bene un sottile interprete come Egidio Martini: «egli infatti non era un colorista ma piuttosto un pittore di luce e ombra. E si serviva di questo elemento non per esprimere e costruire immagini robuste e serene, come farà il Piazzetta, ma per darci invece un suo stato d'animo drammatico e patetico». E ancora: «una personalità strana, vagante, non ferma, direi quasi incoerente, se non fosse sempre stata coerente per un suo fondo malinconico e sofferto». E, se da El Greco siamo partiti, potrà essere interessante il punto di arrivo proposto da Sergio Marinelli: «il fascino moderno di Bencovich è quello di sembrare in qualche momento il Francis Bacon del '700». Ecco, dopo le prime aperture moderne (sulla scia delle fonti contemporanee che indicano la discendenza di Tiepolo da Bencovich) di Rodolfo Pallucchini e di Roberto Longhi, il fascino spettrale del pittore travolge gli interpreti del nostro tempo che ne avvertono la singolare attualità. Formale, e sperimentale, soprattutto. La pala di Borgo San Giacomo, la trasfigurazione delle forme di un grande maestro come il romagnolo Carlo Cignani nelle opere giovanili di Bencovich, in particolare quelle di Pommersfelden, Agar e Ismaele e Sacrificio di Ifigenia, dove la forma è più chiusa, ma baluginante, sono prove di sconcertante novità, concezioni alternative e innovatrici. Sono dipinti visionari, allucinazioni, frutto di un'alterazione psichica della visione. Bencovich dipinge sogni. E un interprete sensibile come Grgo Gamulin scrive: «questo pittore solitario e visionario che creava figure allungate e fantastiche dall'incarnato color avorio, che si muovono come fantasmi, tra luci e ombre».

Davanti alla sua Deposizione di Cristo, in una notte fredda di un giorno di febbraio di un anno doloroso, siamo nella solitudine di una chiesa, fantasmi anche noi, in contemplazione, con Don Fausto e i ragazzi che ci accompagnano. Per un momento sembra, in questa imprevedibile circostanza, che la vita riprenda. Siamo, con le illuminazioni di Bencovich, negli stessi anni in cui, con gli stessi riferimenti, dall'Austria, viene a lavorare in Italia Ignazio Stern (anch'egli autore, come poi sarà il Tiepolo, di un Sacrificio di Ifigenia). Verso il 1724-1725.

Dalla lettura dei documenti risulta infatti che Bencovich, allora residente a Milano, fu pagato in quegli anni per l'esecuzione della grande pala di Borgo San Giacomo. Dopo quasi 300 anni siamo qui a guardarlo ancora. A sentire con lui. E ci parla di malinconia, di dolore, di speranza.

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