(...) e gli chiedono dove va lui può dire: «In arcivescovado». E quando esce, ovviamente, risponde: «In arcivescovengo».
Ma, ovviamente, le facezie e le freddure di Robberto - secondo il battesimo di Sofia Loren nella notte degli Oscar - sono il contorno. Quello che sta attorno è la ciccia. E non è una ciccia da poco: la bellezza dellamore di Dio, la gioia di chi tocca il mantello, il racconto della forza dellamore, la rivoluzionarietà del messaggio di Cristo.
A questo punto - tranne forse i giornalisti che devono tristemente dettare larticolo alla svelta, aggiornandolo alle ultime battute di giornata (è la dura vita di chi non lavora al Giornale e di chi si accontenta programmaticamente del basso rinunciando allalto) - anche chi era a Fiumara per sentire le battute politiche, dimentica tutto, Berlusconi e Prodi, Scaramella e Sircana. Forse lo dimenticano persino Burlando, lunico politico che ha colto loccasione per essere in platea in una sera-evento per Genova e Vincenzo Spera, lorganizzatore locale che firma unaltra grande pagina di spettacolo a Genova.
Ma sono piccoli particolari. É troppo alto, più alto, quello che Roberto sta raccontando. E, soprattutto, come lui precisa più volte, è per tutti. Anche per chi non crede. Che, dallaltra sera, forse, è un po più difficile che non creda.
So che rischio di essere blasfemo. Ma mi ha riscaldato il cuore e la fede molto più lo spettacolo di Benigni (così come aveva fatto Lultimo del paradiso in televisione, la straordinaria lettura di «Vergine madre, figlia del tuo figlio...), di tante messe dette svogliatamente, con prediche standard, lette come fossero lelenco del telefono.
Poi, finalmente, Dante. Poi, finalmente, la Commedia. Poi, finalmente, la Poesia.
E, diciamo la verità, qui Benigni è più che aiutato dal testo. Il quinto canto dellInferno sembra scritto apposta per emozionare chi legge e chi ascolta, chi spiega e chi impara. E non solo per il «vuolsi così colà dove si puote», e non solo per l«or incomincian le dolenti note», e non solo per l«amor, cha nullo amato amar perdona», e non solo per il «galeotto fu l libro e chi lo scrisse», e non solo per il «caddii come corpo morto cade» che chiude il canto, con la pietas che travolge - persino fisicamente - anche Dante.
Solo la leggerezza e la sciatteria di generazioni di insegnanti (non tutti grazie al cielo, anzi) ci hanno impedito di amare queste parole come meriterebbero. Lamore folle e assoluto di Paolo e Francesca è roba in grado di smuovere anche il cuore più duro. Il racconto di quellamore fatto da Dante va anche oltre.
E Benigni fa la cosa più giusta e più bella. Spiega la poesia di quel canto, ma poi lascia parlare Dante. E qui arriva il secondo miracolo: il Benigni sul palco di Fiumara negli ultimi dieci minuti non ha nulla a che vedere con leterno monello, con il guitto che salta per il palco, per lo strizzatore di palle di mille palchi. Addirittura, non ha nulla a che vedere nemmeno con il papà de La vita è bella, che resta comunque un capolavoro assoluto di poesia e di bellezza.
Quello degli ultimi dieci minuti è un Benigni che si trasfigura, che non assomiglia neppure più a Roberto. É direttamente Dante e, come Dante, urla, sussurra, si commuove, piange apertamente. E con lui tutti i cinquemila di Fiumara.
Chi, uscendo, non piangeva, non è umano.
Miracolo. A Fiumara.
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