Il governo ha reintegrato il Fondo unico per lo spettacolo. Non solo. Ha reso stabile e permanente il tax credit, cioè le agevolazioni fiscali in favore di chi investe nel cinema, con l’aumento delle accise (tradotto: tasse) sulla benzina. Di più. È riuscito in questo modo a evitare l’aumento di un euro al box office, provvedimento già al centro di una polemica furibonda.
Il risultato c’è: il dimissionario Sandro Bondi, che ieri ha lasciato il dicastero dei Beni culturali a Giancarlo Galan, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta hanno onorato una promessa fatta alcuni mesi fa. Ma viene qualche dubbio. Non si era detto, giustamente, che la cultura (e lo spettacolo, in particolare) deve essere capace di stare sul mercato con le proprie forze? I tagli, oltre a rispondere a una necessità economica, erano pienamente giustificati in linea di principio: «arte di Stato» è un’espressione che dovrebbe essere sgradita a tutti. Figuriamoci ai liberali.
Si dirà che la sforbiciata dovuta alla crisi era stata troppo drastica. Sarà. Ma i dati appena diffusi sul cinema (e anticipati da un’inchiesta del Giornale ) testimoniano che le nostre produzioni, da quando le sovvenzioni sono in calo, hanno guadagnato terreno rispetto a quelle straniere e conquistato spettatori. Per quale motivo? Ipotizziamo: perché ora sono costrette a fare i conti con i gusti del pubblico e non con la politica o la burocrazia ministeriale.
Si aggiungerà che alcune realtà, come le Fondazioni liriche, non avranno mai la forza di competere perché l’opera è elitaria. In parte è vero. Anche in questo caso, però, i numeri raccontano una storia un po’ diversa: poche serate, costi elevati, biglietteria scarsa, sponsor risicati, personale pletorico, contratti integrativi discutibili. Riassumendo: l’opera purtroppo è per pochi, va bene, ma le Fondazioni non decollano dal punto di vista manageriale. Tra l’altro non è che lo scenario sia sempre catastrofico, in alcuni teatri virtuosi qualcosa sta cambiando in positivo.
Il reintegro lascia passare un brutto messaggio. Cari artisti, reali e sedicenti, lo Stato veglia su di voi e vi assisterà per sempre. Tendete la mano per l’obolo, e poi andate in pace con le vostre cineprese a realizzare pellicole che forse neppure vedremo sul grande schermo, tanto sono interessanti. Tale messaggio è stato subito recepito dall’attore Sergio Rubini che, invece di ringraziare per l’insperata manna dal cielo, ha commentato così il provvedimento: «Ci danno quello che ci spetta». Francamente, l’idea di finanziare con le tasse (ora anche quando si va a fare il pieno al distributore) i film di Sergio Rubini o Nanni Moretti o chiunque altro non riempie d’orgoglio, un eufemismo per dire che non si vede un solo motivo perché le cose debbano andare così. Che poi questo sacrificio non volontario sia pure considerato un atto dovuto da chi lo intasca, fa girare vorticosamente le bobine.
Al di là delle diatribe sulla consistenza del Fus, destra e sinistra dovrebbero riflettere su quali siano i settori in cui lo Stato non può proprio fare a meno di intervenire e da quali si dovrebbe ritirare al fine di spendere al meglio le risorse disponibili. Archivi, biblioteche, musei, beni culturali, paesaggio, lirica: in questi casi, che riguardano l’identità della nostra nazione, non si debbono fare passi indietro, anzi, sarebbe auspicabile farne qualcuno avanti, a patto di tenere sempre aperta la porta ai privati e a una mentalità più attenta al profitto. Sul resto, i tagli non dovrebbero fare paura. Soprattutto agli artisti, quelli liberi.
P.S.
Adesso il professor Andrea Carandini, pochi giorni fa dimissionario per mancanza di fondi dal Consiglio superiore dei Beni culturali, può ritornare al suo posto. Infatti la vera buona notizia è che vengono destinati 80 milioni in più alla tutela del patrimonio storico, architettonico, artistico e archeologico.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.