Controcultura

Berenson fra i sogni d'arte e gli incubi della guerra

Dall'amicizia (poi incrinatasi) con Carlo Placci al sicuro rifugio di Villa I Tatti a Firenze

Berenson fra i sogni d'arte e gli incubi della guerra

Si pubblicano i diari di Bernard Berenson Voci e riflessioni. 1941-1944 (La nave di Teseo), particolarmente significativi perché riguardano il tempo difficile della guerra. E possiamo meglio capirlo ora.

Berenson (1865-1959) vive, al centro di interessi culturali e finanziari internazionali, determinante per le collezioni di musei e privati, a Settignano, in una dimensione dannunziana più sofisticata, ma con minori protezioni. Berenson appare imperturbabile e, in apertura di questi diari, manifesta la sua coscienza infelice, rappresentando il comportamento di un amico amato, personalità letteraria e mondana straordinaria e dimenticata travolta da un impenetrabile oblio: Carlo Placci, uomo colto e premuroso al quale molto deve Berenson nella sua lunga vita fiorentina. Più vecchio di Berenson, Placci aveva frequentato con costanza i salotti della migliore società fiorentina, leggendo, per passione, i poeti inglesi e i narratori francesi. Nel 1880 aveva conosciuto Violet Paget, nata in Francia da genitori inglesi, futura scrittrice che, con lo pseudonimo di Vernon Lee, pubblicherà romanzi e racconti di intensa spiritualità. Con lei avrà una lunga corrispondenza, e attraverso di lei conoscerà Berenson. Intanto su Cronaca bizantina, quindicinale romano di arte e letteratura dell'editore Angelo Sommaruga, invitato dal giovane Gabriele d'Annunzio, Placci inizierà a scrivere, prevalentemente di viaggi e marginalmente di arte. Nelle sue corde, Placci pubblica Mondo mondano, novelle di vita e di costume. Nel 1908 inizia a collaborare con il Corriere della Sera, con l'appoggio di Ugo Ojetti, scrittore, critico d'arte, firma e direttore (nel biennio 1926-27) del quotidiano milanese. Alcuni articoli di Placci dai toni fortemente nazionalistici sono respinti dal direttore Luigi Albertini.

Al tempo dell'entrata in guerra di Mussolini, Placci si distacca da Berenson. Non dimentichiamo che Berenson era di famiglia ebrea. Attraverso il rapporto con Placci si intende la posizione e l'amarezza di Berenson. Ecco cosa scrive nel gennaio del 1941: «Carlo è morto stamane tra le quattro e le cinque e così si è conclusa un'amicizia di cinquant'anni. L'ultima volta che vidi Carlo fu nel maggio del 1940. Passai i rimanenti giorni di quel mese e i primi di giugno a Roma. Quando tornai qui, la guerra contro la Francia e l'Inghilterra era stata dichiarata, e siccome eravamo entrambi noti come amici di questi due paesi, un bando di scomunica era stato segretamente protocollato contro di noi dagli anziani non d'Israele ma dell'alta società fiorentina. Io non m'aspettavo che Carlo vi si assoggettasse. Vi si assoggettò. Preferì la loro frequentazione alla nostra. Peggio ancora, non si curò, e sarebbe stato abbastanza facile, di farmi sapere in qualche modo che n'era dispiacente, ma che per altro non sopportava l'idea di venir escluso da quel gruppo di gente altolocata. Io avrei compreso, rimpianto, concesso molte attenuanti... Confesso che ne fui amareggiato, perché le sole persone che possono ferirmi sono quelle che ho amato e stimato... E tuttavia quale altra condotta potevo aspettarmi da Carlo Placci! Egli era così completamente uomo di mondo che la morte stessa gli sarebbe sembrata preferibile al vedersi escluso da quel cerchio di gente tra la quale passava la vita».

È, in verità, un ritratto perfetto di Placci, e continua per molte pagine, restituendoci vivo un personaggio che io ho inseguito senza mai trovare informazioni o commenti utili a comprenderlo. È lo stile di Berenson, colloquiale, imperturbabile, accostante, con una scrittura che sembra la trascrizione di una conversazione, letteratura orale, con riflessioni che si alternano a descrizioni, a racconti, a resoconti di viaggio. Mai giovane e mai vecchio, Berenson vive in una continua medietà, tra saggezza e ardimento, tra ricordi e cronache. Si impara senza che voglia insegnare, si trae vantaggio dalla sua esperienza delle cose viste, dalle semplici riflessioni sulla vita e sul destino degli uomini. Il suo diario ha l'andamento di un'interminabile riflessione sul senso della vita, riscontrando la continuità tra gli antichi e i moderni. Potrebbe apparire un trattato filosofico, del genere dei Ricordi di Guicciardini o dei Saggi di Montaigne. La tensione del suo pensiero è accentuata, pur nella sua vita riparata, dallo stato di guerra: «Se la Germania sarà sconfitta anche stavolta, Dio sa chi ci rimarrà a governarla! Chi è rimasto in Francia a governare lo vediamo di già. Una congrega di dissennati, sprovvisti di ogni senso pratico, epigoni di un romanticismo farneticante, travolti da passioni distruttive, saturi del più cieco amore e dell'odio più incontrollato». E mentre fa queste profetiche riflessioni non perde di vista le cose minute pur legate ai grandi temi dell'esistenza, con un tono che ricorda i grandi moralisti, tra Sant'Agostino e Petrarca. Cosa dice Sant'Agostino sulla morte? «La morte non è niente. Sono solamente passato dall'altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora».

Berenson sa di essere in pericolo ma mantiene il distacco, la superiorità che lo hanno reso un riferimento per la cultura e l'arte nell'intero mondo. Non può mostrare di avere paura, non può mostrare di avere incertezze, non può permettersi di mettere in discussione il suo mito. Così decide di vivere dentro la contraddizione, come se Villa I Tatti, la sua dimora fiorentina, fosse fuori del mondo e lui potesse guardare ciò che accade dall'alto. Continua a vivere distaccato e imperturbabile, continua a leggere, a vedere e a studiare. Nel settembre del 1943 Berenson, che aveva resistito, temerario, è costretto, per evitare ritorsioni, a lasciare Villa I Tatti. Anche questo trauma è accolto con equilibrio, senza traumi, e Berenson appare, come sempre, imperturbato, e ha perfino l'umore di registrare la violenza al paesaggio nelle case popolari.

Il diario si conclude il 12 novembre '44. A Firenze sono arrivati i comunisti. Berenson osserva: «Se il comunismo è un esperimento che non possiamo evitare, o anche soltanto un sistema per attirare e ipnotizzare un numero sempre crescente dei più vari scontenti, non è con la violenza che potremo sopprimerlo, ma con la persuasione, e in fine con la prova dei suoi errori».

E noi per quattro anni, tra storia, dolore, letture, speranze abbiamo vissuto con Berenson, scettico, disincantato, grande lettore: i suoi diari ci hanno dato la dimensione della sua vita più ricca, in tempi difficili, rispetto alla nostra, più povera, in tempi facili.

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