A pochi centimetri dal precipizio prevale la paura del vuoto. Sotto ci sono le elezioni anticipate e nessuno pare avere voglia di buttarsi senza un paracadute più che sicuro. Così nel giro di poche ore l’aria cambia direzione, i toni si attenuano, gli eserciti restano schierati ma i fucili si abbassano. Per il momento l’apparente tregua dentro la maggioranza, dopo giorni di polemiche al calor bianco, sembra più tattica che strategica. Fini non è ancora pronto ad andare a contarsi nelle urne, non si fida di sondaggi che ancora risentono dell’effetto visibilità, né può farsi sponda di un governo tecnico, Napolitano permettendo, per fare una riforma elettorale sulla quale non c’è il minimo accordo con gli eventuali compagni di viaggio. Dal Pd a Di Pietro, da Vendola a Casini, ognuno vorrebbe sì cambiare le regole per neutralizzare Berlusconi ma le ricette sono troppe e in conflitto tra loro. Meglio traccheggiare ancora un po’. Il premier ne ha subito approfittato giocando di rimessa. Ieri ha annunciato che già oggi si parte con le riforme, anzi dalla mamma di tutte le riforme, quella del federalismo fiscale, da approvare entro sessanta giorni.
La mossa rimescola non poco le carte della già confusa partita. Chiedendo di approvare subito il federalismo, Berlusconi ottiene più di un risultato. Primo: lega a sé Bossi in maniera indissolubile. Secondo: sposta il contendere dallo scivoloso campo della giustizia a quello delle tasse e dei costi dei servizi, tema assai più popolare e comprensibile dagli elettori. Terzo: mette Fini davanti alla scelta più difficile e per lui pericolosa. Da una parte, infatti, Fini ha sottoscritto il «sì» al federalismo sia nel programma elettorale che votando la recente fiducia al governo. Ma, dall’altra, è noto che il Fli vede proprio questa riforma come fumo negli occhi, perché contraria alla sua indole statalista e centralista e perché vararla sarebbe il più grande dei regali al suo nemico giurato Umberto Bossi.
Se Fini vorrà fare cadere il governo, quindi, ora dovrà farlo su un fatto concreto, che nulla ha a che vedere con presunti conflitti di interesse del premier o col vittimismo della magistratura. Il testo che oggi il governo consegnerà alla Camera non è previsto che sia modificato più di tanto. E il fatto che Tremonti ieri si sia presentato al fianco di Berlusconi nella conferenza stampa dell’annuncio è letto come un via libera definitivo al progetto anche da parte dell’uomo dei conti, senza la benedizione del quale nessuna legge di spesa può andare in porto.
Il timing della crisi di governo si allunga quindi di sessanta giorni, termine entro il quale il Parlamento deve trasformare il decreto in legge dello Stato. Se i finiani non daranno il loro appoggio la conseguenza è già scritta: si va a votare e sarà chiaro a tutti per colpa di chi. Nel frattempo le colombe sono già al lavoro per tentare di indorare la pillola, con concessioni formali e sostanziali. Le prime riguardano il riconoscimento del nuovo soggetto politico Fli, le seconde ieri hanno preso forma nella conferma dei presidenti di commissione, compresa la Bongiorno alla giustizia.
Se tutto ciò non è esattamente una schiarita, certo il clima generale dentro il palazzo sembra indicare una tregua nella burrasca. Che invece continua per le strade. L’assalto di estremisti del sindacato rosso contro le sedi della moderata Cisl non è un buon segno.
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