Lasciare a fine mandato o ricandidarsi a premier? «Siamo in democrazia e questa scelta non spetta a me ma agli italiani che andranno a votare». Così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi risponde a Richard Heuzé, corripondente da Roma di «Le Figaro», in un’intervista che uscirà oggi sul quotidiano francese e, nella sua versione integrale, sul prossimo numero di «Politique Internationale». Un botta e riposta che prende spunto dal vertice italo-francese in programma oggi a Roma e che affronta i principali temi d’interesse internazionali, dal cambio della guardia alla Casa Bianca alla crisi in Medio Oriente, dalla crisi economica mondiale agli obiettivi della presidenza italiana del G8. Ma anche l’occasione per tracciare un bilancio dei primi nove mesi di governo e per delineare le linee d’azione future.
Il G8 si riunisce nel 2009 sotto la presidenza italiana. Per la terza volta dal 1994 lei sarà il presidente. Quali le sue priorità e come intende condurre il mandato?
«Lei vuole proprio ricordarmi che sono invecchiato... È vero, presiedo il G8 per la terza volta, nessuno prima di me lo ha fatto. Mitterrand e Kohl ne hanno presieduti due. È una grande responsabilità, perché il mondo attraversa una fase difficile e piena di incognite. Non mi riferisco solo alla crisi finanziaria globale, ma anche alle relazioni con la Federazione Russa, al conflitto israelo-palestinese, alla stabilizzazione di Afghanistan e Irak, all’escalation nucleare dell’Iran, alla crisi del Darfur, e ancora alla fame, alla povertà e al cambiamento climatico, che mettono in pericolo il conseguimento degli “Obiettivi del millennio”. Non si può indicare una priorità, ve ne sono diverse: dalle regole per la governance globale dell’economia a una nuova architettura delle istituzioni finanziarie internazionali, dalla mediazione tra i leader sui temi ambientali prima del summit 2009 sul clima a Copenaghen, a un concetto di sviluppo che comprenda più attori e più strumenti. Tutto questo richiede un ripensamento della natura e struttura del G8. Un aspetto che potrebbe apparire formale, ma non lo è».
Intende che cambierà il formato del G8, e che il G7-G8 precederà il G20? Cosa si aspetta? Perché vuole allargare il G8?
«L’Italia vuole che il G8 sia sempre più rappresentativo ed efficace. Per essere rappresentativo in un mondo che cambia con la rapidità di oggi, deve essere inclusivo, deve aprirsi alle economie emergenti e dialogare con la parte di pianeta più povera. L’Italia non vuole la fine del G8, non vuole il suo scioglimento. Al contrario, vuole un G8 più forte e più concreto. Noi proponiamo una più stabile e strutturata associazione al G8 dei Paesi del G5 (Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa) oltre all’Egitto, in rappresentanza del mondo arabo, musulmano e africano. È cruciale il confronto su temi specifici con singoli gruppi di Paesi, per esempio quelli africani, secondo il principio delle “geometrie variabili”. Non è questione di nomi o formule vuote, ma di governance internazionale, di democrazia. Non sarà facile organizzare un G8 con queste ambizioni, ma sono sicuro che ci riusciremo».
Lei era un grande amico di George W. Bush. Come giudica il neo presidente Usa Barack Obama? E che cosa si attende da lui?
«Non è possibile fare un paragone tra ciò che è stato e ciò che sarà. Non tocca a me giudicare la presidenza di George W. Bush, sarà la storia a farlo. Per me è stato, ed è, un amico, un uomo che stimo. Si è trovato a guidare la nazione americana in uno dei momenti più tragici della sua esistenza, a fronteggiare l’11 settembre, cioè il primo attacco militare sul territorio degli Stati Uniti dai tempi di Pearl Harbor. Con me è stato leale, il suo sì era un sì, il suo no un no. Ma dietro l’amicizia c’era la solida alleanza tra Italia e Stati Uniti, tra i nostri due popoli. È su questa base che si sta cominciando a costruire un rapporto di stima, fiducia e collaborazione tra me e Barack Obama. Nei primi contatti che ho avuto con Obama, ho capito che ci legano tratti comuni. È un leader concreto e positivo, che si prepara a fondo sulle questioni, che conosce molto bene i dossier della politica internazionale, e con il quale si ragiona. Ci lega pure l’“audacia della speranza”. Un tratto necessario nei momenti di crisi».
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Pensa che l’Europa sia uscita rafforzata dal semestre francese di presidenza europea? Che opinione può dare sull’operato del presidente Nicolas Sarkozy? Dove ha agito positivamente e cosa avrebbe dovuto fare in più o in modo diverso?
«Il presidente Sarkozy ha condotto il semestre di presidenza europea con intelligenza e determinazione. È stata una presidenza forte e autorevole. La nostra collaborazione è stata piena e in molte situazioni il contributo dell’Italia è stato decisivo. La Francia si è trovata, come presidente di turno, a gestire sia la chiusura del pacchetto-clima, sia la crisi finanziaria, sia il conflitto tra Federazione russa e Georgia, con tutte le conseguenze per i rifornimenti di gas. Su tutti questi fronti, Sarkozy ha potuto contare sul nostro sostegno e lo ha riconosciuto pubblicamente. Entrambi crediamo in un’Europa più forte, in linea con il processo riformatore di Lisbona. Un’Europa vicina ai cittadini, più democratica e più autorevole sulla scena internazionale».
Nel summit italo-francese a Roma, si parlerà ancora del progetto Alta Velocità Torino-Lione. Tenendo conto dell’opposizione delle popolazioni locali, può garantire che l’Italia aprirà i cantieri come previsto da qui al 2011 e realizzerà quest’opera entro le scadenze previste?
«Poche settimane fa il mio governo ha confermato il commissario Mario Virano alla presidenza dell’Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione. Intendiamo accelerare il lavoro per completare il Corridoio 5. L’Alta Velocità era nel nostro programma elettorale, c’è pieno accordo nel governo, quindi la Torino-Lione si farà. Noi attribuiamo un’importanza strategica allo sviluppo delle infrastrutture. Abbiamo riaperto tanti cantieri chiusi dal precedente governo tenuto sotto ricatto dal fanatismo ambientalista, e mi fa piacere che anche a livello europeo stia prevalendo un’idea nata con la presidenza italiana della Ue nel 2003, cioè l’emissione di eurobond per finanziare le grandi infrastrutture continentali, idea che ha avuto la sua traduzione politica nelle conclusioni della presidenza francese».
Tornando a guidare il governo nel maggio 2008, lei ha proclamato la volontà di «cambiare l’Italia». Sarebbe in grado di tracciare un bilancio di quello che ha già fatto e di quello che le sembra più degno di nota?
«In campagna elettorale avevamo annunciato che volevamo cambiare l’Italia, ma anche che era imminente (siamo stati gli unici a dirlo) una crisi economica di portata globale che non avrebbe avuto precedenti negli ultimi cinquant’anni. Rivendico al mio governo, oltre alla soluzione della tragedia dei rifiuti a Napoli e in Campania e al mantenimento dell’Alitalia come compagnia di bandiera, successi che ci hanno dato una grande popolarità, l’essere riusciti a mettere in sicurezza i conti pubblici con una legge finanziaria che per la prima volta ha il respiro di un triennio, con un profilo di deficit condiviso a livello europeo e tale da consentirci di affrontare la crisi con gli strumenti di finanza pubblica più adeguati. In secondo luogo, ci siamo battuti in Europa per finanziare le grandi infrastrutture di cui il continente ha bisogno e che in Italia erano state bloccate da veti ideologici. Inoltre, con la riforma della scuola abbiamo gettato le basi perché la classe dirigente italiana sviluppi le proprie potenzialità secondo standard europei. Stiamo procedendo alla riforma della giustizia perché i diritti della difesa siano equiparati a quelli dell’accusa e tutti i cittadini possano avere giustizia in tempi rapidi. La riforma passerà attraverso una netta distinzione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. A ciascuno il suo lavoro, senza commistioni».
Si sa che lei dà molta importanza a questa riforma, in particolar modo alla riforma dei tribunali, come pure la Francia ha iniziato a fare. È davvero così vitale come sostiene, o è solamente a causa dei suoi rapporti controversi colla magistratura che sarà limitato il potere dei «piccoli giudici»?
«La macchina della giustizia deve recuperare efficienza e credibilità. La civiltà di una nazione si misura anche dalla capacità di rendere giustizia ai propri cittadini. In Italia si trascina da anni un problema che le illustro con un paradosso. Succede che gli stupratori vengano messi in libertà, mentre i cittadini perbene non riescono a ottenere un verdetto in tempi utili. Manca la certezza della pena. La giustizia, di fatto, è negata. Il nostro obiettivo è quello di accelerare i processi e semplificare i riti. Spesso, per un eccesso di discrezionalità e legami troppo stretti tra giudici giudicanti e accusa, non sono garantiti i diritti della difesa. Non ho alcun problema personale con la magistratura non politicizzata, per la quale ho, anzi, il massimo rispetto. Infatti, nonostante una quantità impressionante di indagini, perquisizioni e processi contro di me e contro le società del mio gruppo, ne sono sempre uscito innocente. È facile pensare che si sia tentato di liquidarmi politicamente per via giudiziaria, ma questo, ormai, appartiene al passato. Gli italiani lo hanno capito da tempo».
Il Parlamento sta per varare il federalismo fiscale reclamato a gran voce dalla Lega Nord, vostro alleato. In che modo cambierà la vita del Paese? Non sussistono rischi politici e di budget troppo importanti per un Paese fragile come l’Italia?
«Il federalismo, a cominciare da quello fiscale, è una riforma prevista dalla nostra Costituzione. La stessa sinistra - che adesso lo osteggia per interesse politico - lo aveva proposto durante il primo governo dell’Ulivo. Era nel nostro programma elettorale, è una promessa che avevamo il diritto e il dovere di mantenere. L’obiettivo è ridurre gli sprechi, abbassare le tasse, controllare da vicino l’efficienza e la moralità dei governi locali. Il contrario dei timori che lei ha evocato».
Come immagina l’Italia nel 2011, come vorrebbe che fosse, quali ostacoli pensa di dover affrontare?
«Il primo ostacolo è la crisi che l’Italia sta attraversando al pari degli altri Paesi. Noi ci siamo attivati tempestivamente. Sono stato il primo in Europa a dichiarare che non avremmo permesso il fallimento di alcuna banca, con conseguente perdita dei risparmi per i cittadini. Il nostro sistema bancario ha retto all’urto, grazie alla sua solidità. Ci siamo anche preoccupati immediatamente degli effetti della crisi sulle fasce più deboli della popolazione, attuando misure concrete come i “bonus” per le famiglie più povere e numerose, la social card, il fondo per i neonati, le detrazioni di spesa per gli asili nido e i pubblici trasporti, i fondi per agevolare gli affitti, gli sconti fiscali sui mutui e un grande finanziamento per alimentare gli ammortizzatori sociali a favore non soltanto dei lavoratori a tempo indeterminato ma anche dei lavoratori precari. L’Italia sta riconquistando le posizioni perdute negli ultimi anni. Sarà necessario rimboccarsi le maniche. Sogno un’Italia nella quale prevalga il merito e i giovani possano tutti sviluppare le proprie capacità. Un’Italia capace di competere nel mondo, e nella quale nessuno sia lasciato solo».
Spesso lei evoca il suo successore, auspicando che sia giovane. Si è prefisso una data per il passaggio di potere? Ha rinunciato per sempre all’idea di ricandidarsi a fine mandato?
«Io ho interpretato e interpreto il mio impegno politico come un servizio al mio Paese. Ero il più invidiato imprenditore italiano. Ho deciso di impegnare tutto me stesso per preservare il mio Paese da un’ipotesi comunista e da un futuro incerto e confuso. Ho messo a disposizione degli italiani le mie capacità e le mie esperienze. Sto presiedendo il mio terzo G8, come lei ha ricordato. Non credo che ne presiederò un quarto, ma l’Italia è una democrazia, non una monarchia, quindi le date dei passaggi di potere non le decido io. Sono gli italiani a deciderle, ogni cinque anni, con il voto».
Quali sono stati i momenti più felici dei suoi quattordici anni di esperienza politica? Cosa si rammarica di non aver potuto fare?
«Credo di aver dato contributi importanti in politica estera, per esempio con l’associazione della Federazione Russa alla Nato che si è celebrata a Pratica di Mare nel 2002, sancendo la fine della guerra fredda. In politica interna, credo di aver contribuito a far rialzare l’Italia all’indomani della stagione di Mani pulite, quando i partiti che avevano governato per decenni erano stati spazzati via dalla rivoluzione giudiziaria di stampo comunista. Il pericolo era che il Paese finisse in mano alla sinistra comunista. È successo nel 1994. Sono tornato a Palazzo Chigi nel 2001, sono fiero di aver guidato il governo più longevo nella storia della Repubblica fino al 2006, quando la sinistra è tornata al potere in modo rocambolesco. Me ne dispiace ancora, perché in quel momento l’Italia ha perso l’occasione di profittare della congiuntura economica favorevole».
Dopo il summit Nato a Pratica di Mare nel maggio 2002, che ha gettato le basi di un nuovo sistema di sicurezza internazionale, i rapporti Russia-Nato sono peggiorati. (...) Quali elementi positivi per le relazioni Est-Ovest è in grado di leggere nella recente attualità, e quali timori avverte?
«Mantenere un dialogo sempre aperto con la Federazione russa è una delle priorità per l’Europa e per tutto l’Occidente, se davvero si vuole un mondo stabile e sicuro. I rapporti eccellenti che ho saputo instaurare con i vertici della Federazione russa mi hanno consentito di svolgere un ruolo rilevante nelle ultime crisi, quella georgiana e quella del gas, dando anche una efficace collaborazione al presidente Sarkozy durante la sua presidenza di turno dell’Unione europea».
Sette anni dopo il G8 di Genova, che ha segnato l’inizio di una particolare attenzione verso l’Africa, l’Italia detiene per un anno la presidenza del club dei Paesi più ricchi del mondo. Al summit di Hokkaido, nel luglio scorso, lei ha affermato la volontà di ottenere progressi tangibili sui grandi dossier in sospeso. Quali saranno le sue priorità per lo sviluppo?
«Anzitutto, alla Maddalena per la prima volta la sessione del G8 e del G14 sarà estesa ai Paesi africani. Un nostro obiettivo è quello di rafforzare la sicurezza alimentare tramite la collaborazione strutturata in “global partnership” tra produttori, consumatori e privati per stimolare gli investimenti e rendere più efficienti e coordinati gli aiuti. Un altro progetto al quale da sempre sono affezionato è il potenziamento dell’e-governance, un modo per rafforzare le istituzioni dei Paesi più poveri e promuovere in concreto la trasparenza e la partecipazione democratica. Oltre, naturalmente, a tutti gli altri dossier già noti».
Lei era molto vicino a George W. Bush. Come ha reagito all’elezione di Obama: disappunto, inquietudine, o al contrario soddisfazione?
«Non mi pare che George W. Bush fosse più candidato alla presidenza degli Stati Uniti... È improprio fare paragoni in politica, ma in questo caso ancora di più. A Bush mi lega un rapporto di profonda stima e di amicizia. Sarà la storia a giudicare i suoi due mandati alla Casa Bianca. Non abbiamo sempre avuto le stesse idee, anche riguardo alla politica verso il Medio Oriente, ma alcune diversità di approccio non hanno incrinato i nostri buoni rapporti e la nostra collaborazione. Obama comincia adesso e potrà contare, come Bush, sull’amicizia non solo mia, ma, ciò che più conta, del popolo italiano, in linea con quella tradizione di alleanza tra i nostri due Paesi, oggi più forte che mai».
In politica estera quali grandi cambiamenti vorrebbe veder adottati dagli Usa? L’uscita di Bush prelude a un nuovo mondo multipolare, o pensa che gli Usa continueranno a imporre la loro legge all’intero pianeta?
«Appartengo a una generazione che deve la propria dignità, la propria libertà e il proprio benessere al sacrificio di tanti cittadini americani nella Seconda guerra mondiale, e che ha vissuto gli anni della guerra fredda sotto l’incubo di una contrapposizione tra blocchi che poteva degenerare in guerra atomica. Quando il Muro è crollato, è cambiato il mondo e si è creduto che fosse rimasta un’unica superpotenza, gli Stati Uniti. Io non ho mai pensato agli Stati Uniti come a un Paese dal quale ci dovessimo guardare, che avesse mire imperialistiche o che volesse imporre al mondo la propria legge. Credo che sarebbe sbagliato descrivere un mondo sottomesso all’America. Il mondo è più complesso, è un mondo multipolare anche in virtù della crescente potenza asiatica. E poi, la Federazione Russa è tutt’altro che in declino. Le ultime vicende finanziarie, le minacce all’economia globale, hanno dimostrato senza ombra di dubbio che non può essere solo l’America a indicare la strada, ma anche che da essa non si può comunque prescindere. Le soluzioni dipenderanno dal coordinamento e dalla collaborazione che sapremo sviluppare a livello globale».
Italia e Francia dividono la responsabilità di sorvegliare la frontiera tra Israele e Libano. La situazione attuale la soddisfa? Pensa che un equilibrio delle forze sia stato realizzato? Quale avvenire prevede per il Libano?
«La missione di pace dei nostri 2300 militari sta assolvendo con successo al mandato ricevuto. La collaborazione tra Italia e Francia, a livello politico e sul campo, è piena e senza pecche. La stabilità a lungo termine dipenderà ovviamente da un assetto globale dell’area e dal processo di pace che mi auguro presto possa riprendere tra israeliani e palestinesi, ma anche tra israeliani e libanesi».
Il vostro governo è tradizionalmente vicino a Israele. Pensa che questa nazione accetterà un giorno la creazione di uno Stato palestinese? Bisogna invitare Hamas al tavolo della conferenza?
«È evidente anche a Israele che una pace duratura passa attraverso la creazione di uno Stato palestinese. Il principio è stato accettato dagli israeliani, che lo condizionano però alla sicurezza. Come dargli torto? Il problema è un altro, forse inverso. Si può dialogare con un’organizzazione terroristica come Hamas, che nega alla radice la legittimità di uno Stato membro delle Nazioni Unite come Israele? Come può Israele trattare con chi non ha ancora rinnegato né abbandonato l’uso del terrorismo, con chi si ostina a lanciare razzi contro popolazioni inermi? Israele, del resto, sa che le sue azioni, sia pur difensive, devono essere proporzionate all’offesa, e che un numero esorbitante di vittime civili tra i palestinesi è una sconfitta anzitutto per la politica israeliana».
L’Europa destinerà quest’anno l’1,5% del suo Pil per affrontare la crisi economica. I criteri di Maastricht saranno attenuati per un anno. Questo sarà sufficiente? Quando avverrà la ripresa? Quali sforzi supplementari sarà necessario fare?
«Io credo che l’Europa stia affrontando la crisi nel modo giusto. Dopo il primo momento d’incertezza, è passato il principio che i governi si devono preoccupare del destino delle grandi banche e delle grandi aziende nazionali, così come devono sostenere i consumi e alleviare le difficoltà delle fasce più deboli. Tutti i Paesi, in una cornice globale coordinata, hanno varato le misure che ritenevano più adeguate. In Italia, nel complesso, il governo ha messo in moto 40 miliardi di euro per interventi anti-crisi, pari a 2 punti e mezzo di Pil, addirittura il doppio di quello che chiedeva l’opposizione».
La Banca d’Italia si aspetta un abbassamento del Pil fino al 2% quest’anno. Questo non va a scontrarsi col suo tradizionale ottimismo?
«Le rispondo con le parole di Henry Ford, che sull’ottimismo ha fondato un impero: “Quando tutto sembra essere contro, ricorda che l’aereo decolla controvento, non con il vento in coda”. Nessuno nega la gravità della crisi, però a differenza degli anni Trenta, la risposta è stata tempestiva e corale. Molti osservatori considerano l’Italia un Paese sotto certi aspetti meno a rischio di altri, perché la nostra economia non si basa sugli investimenti finanziari, né dobbiamo temere la bolla immobiliare. Certo, noi abbiamo altri problemi, ma anche la possibilità, la capacità e la volontà di venirne fuori».
L’arrivo al potere di Obama modificherà le cose a Bagdad? Cosa prevede per questo Paese?
«La politica, spesso, ha la memoria corta. Dimentica, per esempio, che cos’era l’Irak sotto Saddam Hussein. Così non si colgono i risultati – che ci sono stati in questi anni – come le elezioni e la ricostruzione. Chi avrebbe immaginato in una conferenza stampa nell’Irak di Saddam un giornalista che potesse lanciare una scarpa contro il presidente di un altro Stato in visita ufficiale e rimanere in vita? Si parla e si scrive spesso delle violenze che hanno luogo in certe zone dell’Irak. Al contrario, non si sottolinea abbastanza la normalità riconquistata nella maggior parte del Paese (...)».
L’Italia è fortemente impegnata con i propri militari in Afghanistan. Molti giudicano il governo Karzai troppo corrotto e sostengono che converrebbe negoziare direttamente coi talebani non terroristi. Pensa che sia possibile una soluzione non militare a questo conflitto?
«Sin dall’inizio abbiamo detto che l’opzione militare non era l’unica. Anzi, l’opzione militare da sola non sarà mai la soluzione.
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