Bersani all’ultimo giro di giostra

Nonostante la batosta, il segretario resterà in sella grazie al suo trasformismo di vecchio funzionario comunista. Ma per il prossimo scontro dovrà inventarsi qualcosa di nuovo

Bersani all’ultimo giro di giostra

Pierluigi Bersani, nonostante fragilità di fondo nell'esercizio della leadership, è un professionista politico con certe qualità di quelli vecchio stampo. Quelli che si formavano nell'Emilia rossa: perlopiù non destinati ai vertici ma in grado di far funzionare perfettamente «la macchina». Non è un improvvisatore tipo Walter Veltroni, uno capace di prendere il vento soprattutto se un qualche direttore di quotidiano nazionale glielo spiega. E uno destinato appunto ad afflosciarsi come un aquilone quando qualcuno non lo sorregge.
No, Bersani sa andare avanti anche senza aiutini (magari con qualche consiglio di Massimo D'Alema). Ma la sua strategia ha un certo retrogusto da vecchie tattiche comuniste. Disarticolare, dissimulare, assemblare ampi fronti, smontarli, ricostruirli, questo è lo stile visto un po' in opera in queste settimane. Contrastare Nichi Vendola per allearsi all'Udc ma appoggiando Vendola ottenendo poi almeno una candidatura di Adriana Poli Bortone per aiutare la sinistra. Infilarsi in pasticci senza pari in un Lazio sconvolto dal caso Marrazzo, con Nicola Zingaretti che si defila, raccogliendo alla fine la candidatura inventata di Emma Bonino per cavarsi dagli impicci. E poi il segretario del Pd riesce a tenere nella coalizione piemontese l'Udc, riottosa ad allearsi con una Bresso radicaleggiante, promettendo (ahimé non potrà mantenere la promessa) l'assessorato alla Sanità.
Altrettanto abile Bersani è stato nel bordeggiare gli scandali graziosamente seminati sulla strada del centrodestra: si chiedono e non si chiedono le dimissioni di Guido Bertolaso, che già aveva lavorato con il suo spirito da civil servant con tanti uomini di governo locale e nazionale della sinistra. Si biasimano e non si biasimano le intercettazioni selvagge di Trani sul presidente del Consiglio. Si protesta e non si protesta perché nell'ambito della legge sulla par condicio (che non ci si sogna di mettere in discussione) si sospendono i talk show di Michele Santoro.

Si attacca e non si attacca Augusto Minzolini. Tutto sommato Bersani in questo modo si è salvato in qualche modo la pelle: chi ha fatto il lavoro sporco (radicali blocca liste, magistrati amici, giornalismo selvaggio e squadrista) è fuori dal «partito», la vecchia macchina ha macinato modiche quantità della vecchia farina. E si arriverà così al giorno dopo del 28-29 marzo senza doversi dimettere, come è successo a Veltroni.
Si portano a casa le vecchie regioni rosse, si tiene un piedino fino alla fine nel Nord che si sposta verso il centrodestra, si tiene la Basilicata e si corre per la Puglia al Sud. Complimenti alla professionalità. Ma le crepe restano. Grazie ad Antonio Di Pietro si coprono i crolli etici in corso nel Pd (da Piero Marrazzo a Flavio Delbono, da Sandro Frisullo ai disastri calabri e campani). Ma la pezza è peggio dello sbrego: in Emilia il centrosinistra arriva alla terribile soglia della metà per cento dei voti, la Campania e la Calabria rossa sono un ricordo. In Lazio ci vuole il Tar per poter competere. Bisognerebbe conciliare l'Italia sulla giustizia e insieme risanare il partito. Ma il Bravo Professionista non va oltre il rammendo.

E così fa anche a destra: usa l'Udc per tamponare le falle ma spreme a tal punto il partito di Pier Ferdinando Casini da portarlo sull'orlo di una crisi di nervi.
Bersani è il soldato salvato per il giorno dopo: ma per sopravvivere al prossimo scontro gli toccherà inventarsi qualcosa di nuovo rispetto alle vecchie tattiche.

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