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Bersani, il comunista obbediente sempre a braccetto coi suoi sicari

L’ex ministro ritenta la corsa per la leadership, ancora con il sostegno di D’Alema. Che pure alla guida dei Ds gli preferì Fassino e lo bloccò alle primarie di Veltroni

Bersani, il comunista obbediente sempre a braccetto coi suoi sicari

Sarà lo scontro fra due emiliani un po’ acciaccati, quello fra Dario Franceschini e Pierluigi Bersani. Dalle loro parti, rispettivamente Ferrara e Piacenza, il Pd ha sofferto molto nelle ultime elezioni amministrative ma il partito si accorge del «miracolo emiliano» solo ora che è finito e si affida alla scelta fra loro due. Il cattolico praticante che viene dalla Dc e il comunista dal volto umano che viene da tutta la traversata degli ex Pci. Pierluigi Bersani questa volta ci vuole provare sul serio. Ha cinquantotto anni e non ci sarà un’altra occasione. Nasce in mezzo al popolo, per così dire. Suo padre era meccanico e benzinaio ed ebbe il suo daffare il Pierluigi quando approvò la lenzuolata sulle liberalizzazioni a convincere i colleghi di papà che non ce l'aveva con loro per partito preso. Laureato in filosofia, tesi su San Gregorio Magno, per qualche anno si dedicò all’insegnamento poi venne conquistato dalla politica. Come i bravi comunisti emiliani si fece le ossa nell’amministrazione e prima ancora di diventare ministro diresse la giunta regionale con grande padronanza.
Mise gli occhi su di lui Romano Prodi che della covata degli amministratori scelse proprio il Pierluigi per affidargli l’Industria. In pochi mesi Bersani si conquistò il favore degli imprenditori. Sapeva di che parlava, si era fatto una competenza economica che lo portò anche a dirigere la Commissione per il programma (nei partiti di sinistra c’è sempre un momento in cui si vara una commissione per il programma) sostituendo un dirigente carismatico come Bruno Trentin. Quando arrivò al governo Massimo D’Alema, dopo la defenestrazione di Prodi, Bersani restò nell’esecutivo in cui rappresentava l’area liberal.
Nacque lì il doppio sodalizio che ne avrebbe segnato, e bloccato, la carriera. Strinse rapporti stretti, lui beniamino del partito e così alla mano con i giornalisti, con due di quelli che si vantano di essere antipatici, riuscendovi in maniera egregia. Il primo è Vincenzo Visco, il più famoso ministro delle tasse in Europa. Burbero e scontroso, Visco dette vita con Bersani a un centro di elaborazione economica chiamato «Nens» che nel corso degli anni ha riempito le redazioni di giornali con le previsioni più catastrofiche sull’andamento dell’economia italiana. L’altro, l’avete già indovinato, è Massimo D’Alema che sarebbe famoso anche se non fosse il nemico storico di Walter Veltroni.
La fine dei governi di centrosinistra fu sancita dalla sconfitta elettorale del 2001. Veltroni se n’era già andato e il povero Pietro Folena ambiva a succedergli. Non era questo il parere di D’Alema che tuttavia temeva un concorrente assai più ostico del buon Folena. Si era affacciata informalmente la candidatura di Sergio Cofferati. Bisognava bloccarlo e Bersani era già pronto a scendere in campo. D’Alema gli preferì Fassino, un altro antipatico di razza, che godeva fama di gran lavoratore. Bersani restò fuori e entrò nella segreteria di Fassino. Anni dopo ci volle riprovare. Il Pd non trovava un segretario e la nomenclatura si stava affidando a Veltroni. Anche questa volta Pierluigi Bersani si dichiarò pronto al grande passo della candidatura ma anche in questo caso fu bloccato, sempre dal solito D’Alema, e lui pronunciò il secondo doloroso «Obbedisco» della sua carriera.
La rinuncia diventò la cifra dell’ex comunista emiliano che piaceva al partito e ai nemici del partito. Andatura stanca, quei pochi capelli un po’ spettinati, il buon Pierluigi era accompagnato dalla fama di bon vivant. I giornalisti perdono ore a decifrare le sue frasi che si concludono immancabilmente con detti dialettali della buona tradizione contadina. La gran bagarre sull’Unipol lo scalfì appena, mentre rimasero nella rete Fassino, Latorre e D’Alema. Quando andò via, Veltroni lo accusò di aver tramato a suo danno perché aveva annunciato, prima che D’Alema potesse bloccarlo per la terza volta che si sarebbe candidato contro di lui. Per un po’ chi assistè alla lite pensò che si sarebbero picchiati. Dopo il voto delle europee, a Lilli Gruber che a «Otto e mezzo» gli chiedeva come si fa a perdere sei-sette punti percentuali in pochi mesi rispose con ironia: «Come abbiamo fatto noi».
Sarà l’avversario di Franceschini. Oltre cinquanta deputati si preparano a firmare un documento di sostegno alla sua candidatura. Il popolo ex diessino ne aspetta con ansia la discesa formale in campo. Ha detto: «Vogliamo l’innovazione ma difendendo valori antichi» e per rafforzare il concetto ha insistito: «Si deve continuare a pronunciare parole come socialismo, sinistra, popolarismo e cattolicesimo democratico». Detesta il partito di tipo veltroniano: «Il partito - ha dichiarato in una intervista a Panorama - deve essere un’associazione di volontari della politica». Alcuni pensano che abbia un carisma debole, che sia appesantito dai due «cattivi» D’Alema e Visco che lo appoggiano, che sia lento a capire i movimenti della politica. Nel giorno dell’incontro ultra-amichevole di Berlusconi con Obama ha detto a Ballarò che l’immagine del premier è internazionalmente indebolita! Non aveva letto i giornali. È questo stile un po’ naif che attrae i suoi avversari e atterrisce i suoi sostenitori. Paolo Gentiloni, piddino di rito rutelliano, ha invitato a non votarlo perché è socialista. Il suo vecchio compagno di viaggio

html">Enrico Letta gli ha chiesto l’abiura della socialdemocrazia. Se gli togliete questo, che resta di lui, povera creatura?

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