«Se soltanto non ci fosse Napolitano… »: pronunciata a mezza voce da più di un dirigente dell’area Bersani, l’invocazione-invettiva non diventerà mai pubblica, ma rende l’idea di ciò che sta accadendo nel Partito democratico. Già, perché il presidente della Repubblica, nel giro informale di consultazioni che s’è appena concluso,ha strappato a Bersani una promessa e un impegno. La promessa è di non chiedere le elezioni anticipate in caso di caduta del governo, l’impegno è a sostenere (o quantomeno a non contrastare) qualsiasi governo il Parlamento riesca a esprimere.
Il segretario del Pd è stato costretto a dir di sì, ma in cuor suo è sceso dal Quirinale più scontento di prima. A largo del Nazzareno, infatti, la caduta di Berlusconi è vissuta come un incubo quasi peggiore della sua permanenza a palazzo Chigi. Le diciassette correnti che compongono il Pd (il catalogo è stato redatto dall’impeccabile Maria Teresa Meli sul Corriere ) hanno infatti idee molto diverse su tutto: le alleanze, i programmi, la leadership. Lo scontro è netto su un punto soltanto: tanto cruciale, però, da decidere le sorti del partito, se non la sua stessa ragion d’essere. In questi mesi, infatti, Bersani ha sostenuto a parole la necessità di un’alleanza con Casini, ma nei fatti si è mosso nella direzione opposta: consolidare il «Nuovo Ulivo ».
I veltroniani sostengono che s’è trattato di un cedimento,i dalemiani s’illudono che si tratti di una strategia utile a contenere l’erosione dei voti a sinistra; in ogni caso, il risultato è che le posizioni massimaliste di Di Pietro (che dopo le manette ha scoperto la lotta di classe) e di Vendola sono oggi le posizioni della segreteria del Pd. È stato il responsabile economico del partito, Fassina, a respingere la lettera estiva della Bce, ben prima che Di Pietro a Ballarò parlasse di «macelleria sociale ». Come si fa su questa linea a sostenere un governo tecnico che faccia le cose che l’Europa e i mercati ci chiedono? È una domanda che Veltroni ed Enrico Letta si fanno sempre più spesso.
Ed è una domanda che si è fatta anche Napolitano. Troppi «se» e troppi «ma», nella posizione di Bersani ribadita ancora ieri alla manifestazione di piazza San Giovanni, e soprattutto non una parola sul programma e le misure da prendere. La verità è che la segreteria del Pd vuole andare alle elezioni anticipate subito, per almeno due motivi: il primo è la convinzione di vincere con Sel e l’Idv (i sondaggi danno mediamente il centrosinistra 5-6 punti sopra il centrodestra); il secondo è la certezza che sarà Bersani il candidato a palazzo Chigi.
Questo scenario è considerato agghiacciante da un buon numero di dirigenti del Pd. Persino D’Alema, che pure resta il più convinto sostenitore di Bersani, non soltanto non ha rinunciato ad agganciare in qualche modo Casini, ma in privato si è detto convinto che un governo Bersani- Vendola- Di Pietro farebbe rimpiangere, quanto a coerenza, stabilità e durata, il governo Prodi del 2006. E se D’Alema è perplesso, figuriamoci Veltroni. Il fondatore del Pd è incerto sul da farsi, e i fedelissimi disegnano due scenari: il primo punta tutto sul governo tecnico o «di transizione», la cui funzione principale, a questo punto, non sarebbe tanto quella di salvare l’Italia da Berlusconi, ma dal neofrontismo. Sotto l’ombrello protettivo del governo tecnico- è questa per esempio l’opinione di Chiamparino- si potrebbe ottenere un salutare «taglio delle ali» che ridisegni il nostro sistema politico così da presentare agli elettori, nel 2013, un centrosinistra e un centrodestra più omogenei e moderati. Altri veltroniani, più pessimisti, hanno cominciato a ragionare su un altro scenario: la fuoriuscita dal Pd.
È un’idea che di tanto in tanto anche Fioroni ripropone, e che Letta, in quotidiano crescente disaccordo con la maggioranza del partito di cui pure è vicesegretario, da qualche tempo ha cominciato a valutare. Lasciare il Pd significa andare con Renzi, la cui fuoriuscita è considerata da molti naturale e fisiologica (ieri il sindaco di Firenze, definito dalla Bindi «un provocatore», è stato duramente contestato a San Giovanni). Insomma, il vulcano sta esplodendo.
Arroccato all’estrema sinistra della scacchiera, Bersani in cuor suo spera che Berlusconi duri un altro po’, abbastanza per rendere più probabili le elezioni. Per quanto paradossale possa sembrare, il destino dei due leader appare, ogni giorno che passa, sempre più intrecciato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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