Il partito di Pierluigi Bersani è una fotografia. Scattata ieri, alla marcia per il lavoro, che già così, come idea, come nome, è una cosa che fa molto ventesimo secolo, se non addirittura Ottocento.
Nella foto c’è Barbara Pollastrini, in abbigliamento yé-yé, più libertario che liberale; c’è Rosy Bindi con un giaccone da salone parrocchiale anni Settanta; c’è Filippo Penati con un gilet-panciotto probabilmente in cachemire, con i capelli pettinati eleganti e le mani in tasca, come un aristocratico d’altri tempi, come un liberale del conte Carandini, di quelli che invitavano: «Guardateci i calzini, noi siamo i liberali del conte Carandini». E, ovviamente, i calzini di Penati non sono, né mai saranno, turchesi.
E già qui, in queste facce, c’è un po’ del Pd di Bersani: pollastrinianamente molto laico, senza essere però laicista alla Marino; bindianamente attento alle esigenze dei democristiani di sinistra, che sono sempre stati un’altra cosa rispetto al resto del mondo scudocrociato e comunque penatianamente aristocratico dell’aristocrazia che hanno sempre avuto i comunisti doc.
Poi, c’è lui: Bersani. Che sembra quasi la caricatura di Bersani. Vestito grigio scuro a righe della domenica, coccarda tricolore all’occhiello, maglioncino grigio chiaro da assemblea di fabbrica anni Sessanta e cravatta rossa che sbuca da sotto il maglione. Per intenderci, la stessa eleganza che si poteva sfoggiare in un comitato centrale moscovita degli anni d’oro.
Dice tutto quella foto. Poi, certo, c’è la mozione congressuale, che ho provato a leggere dall’inizio alla fine, a costo di appisolarmi dopo pranzo. Il computer me ne ha sputate quattordici pagine fitte fitte formato A4, roba da stomaci forti. E, sinceramente, ci ho trovato dentro anche tanta fuffa, probabilmente un contentino per far piacere alla gente che piace.
Ma, parole a parte, l’Italia che uscirà se vincerà Bersani, a livello politico, sarà quella di nuove coalizioni dai trotzkisti all’Udc. Magari una volta non ci sarà spazio per Turigliatto e quella dopo resterà fuori Cuffaro. Ma la frase «La vocazione maggioritaria non significa rifiutare le alleanze, ma, al contrario, renderle possibili perché costruite nella chiarezza. Non consiste nell’autosufficienza...», dice tutto. Insomma, si torna al 1996 e al 2006, con l’impegno di trovare uno presentabile che ci metta la faccia: il Prodi del Ventunesimo secolo. In molti ipotizzano Casini, altri guardano verso la generazione ancora successiva. Quello che è certo è che, nell’Italia di Bersani, D’Alema sarà il regista.
Dal punto di vista politico - scissioni o no - il Pd di Bersani sarà comunque socialdemocratico. Meno emozioni, parola chiaramente veltroniana quello che «io non sono mai stato comunista», e più mozioni, parola chiaramente d’apparato. Senza dimenticare che, come ha detto ieri a Sestri Ponente, cuore rosso di Genova, «la destra vince nel popolo e noi dobbiamo tornare al popolo. Deve piacerci la gente, anche quella che guarda Retequattro».
Poi, sul fronte della società, l’attenzione sarà meno puntata al «ceto medio riflessivo» e più al ceto medio produttivo. Fra un regista e un piccolo imprenditore, il partito di Pierluigi, quantomeno si accorgerà che il secondo c’è. E fra uno scrittore e un operaio, quantomeno ci sarà la consapevolezza dell’esistenza di Cipputi. Insomma, nel mondo di Bersani, i girotondi saranno solo quelli che fanno i bimbi fra Piacenza e Reggio.
Poi, c’è la sfida delle grandi riforme: pensioni, giustizia, fisco, scuole.
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