Bettini liquida l’ex capo Walter: «È terrorizzato da D’Alema»

L’ha intitolato Pd, anno zero, dedicandolo «a Michele e a quegli amici di una vita che hanno deciso ancora una volta di combattere dalla stessa parte». Assomiglia più a un «Ground zero», però, il quadro che Goffredo Bettini restituisce del Partito democratico nel libro-intervista con Carmine Fotia: solo macerie dopo uno scontro epocale. E hai voglia a ricostruire...
Non risparmia nessuno, l’ex potentissimo braccio destro di Walter Veltroni ai tempi del «modello Roma» e del «primo tempo» del Pd, come lo definisce lui, prima che il film da annunciato colossal si trasformasse in thriller e poi in commedia. Lui la prende da lontano, il Pci e la Dc e la Prima repubblica e Mani Pulite. Poi però è sui protagonisti di oggi (che poi son gli stessi di ieri, accusa), che si scaglia fra l’affranto e l’infuriato. E lo fa dichiaratamente in questa fase, fra il congresso e le primarie che dovranno indicare il nuovo leader, perché signore e signori qui si fa il Pd o si muore.
Così. Massimo D’Alema? «È una persona scissa, come vivesse in una sorta di porta girevole. Quando entra in scena la battaglia e la strategia politica, la sua complessità umana entra in un’ombra silenziosa e prevale la realpolitik, il distacco che sfiora il cinismo, l’irrisione dei sentimenti e delle debolezze». Una «doppiezza», punta il dito Bettini, che è «la vera eredità dei comunisti, di cui D’Alema non si è liberato», là dove il Pci era un partito di grande «ricchezza umana», ma si rese responsabile «di durezze imperdonabilmente ingiuste». La stessa doppiezza che portò D’Alema a telefonare a Bettini, nel bel mezzo della campagna elettorale veltroniana, all’urlo di: «Goffredo, noi vinceremo queste elezioni», salvo poi gettare veleno sul segretario a spoglio ancora in corso.
E Veltroni? «È terrorizzato dalla battaglia interna». Il che, segnala amareggiato Bettini, non depone a suo favore. Perché ne condiziona lo scontro interno con il líder Massimo, il quale invece, si sa, «non usa il fioretto». E perché lo ha portato a commettere cruciali errori. Prima tolse a lui, Bettini, la gestione del partito, operazione «ingenerosa» in seguito alla quale «mi trovai isolato nel gruppo dirigente in modo quasi imbarazzante». Poi si dimise da leader: «Fece harakiri, come Bucharin, che difese fino all’ultimo il partito che lo mandava a morte». E se l’accostamento pare esagerato, è nulla rispetto all’analisi psico-politica che Bettini fa dell’amico di una vita: la debolezza di Walter «nasce anche dalla sua vicenda umana: la perdita precoce del padre, figura da lui poi idealizzata, gli ha fatto trovare nel partito un principio di autorità, di sicurezza. Ciò lo porta a considerare la battaglia interna sbagliata, ingiusta, quasi immorale». Fu Marini a volerlo leader, svela Bettini: «Mi disse: “Non è che io abbia particolari simpatie per Veltroni, ma è l’unico attorno al quale possiamo raccogliere le forze”». Lo convinsero così: «Se perdi, ma perdi bene, sei legittimato a preparare la vera sfida alla destra fra 5 anni».
Esilarante, se non fosse che ora la situazione è grave e pure seria. Basta guardare i due candidati più forti, avverte Bettini. Di Bersani parla solo per liquidarlo come simbolo di un ritorno al passato, il modello dalemiano, che «non ci ha portato da nessuna parte». Su Franceschini invece si accanisce. Racconta delle ore calde del post-dimissioni di Veltroni, quando Walter lo scongiurò di «non insistere col congresso». Bettini non condivideva la scelta di affidare la segreteria a Franceschini, ma obbedì. Però non resistette alla tentazione di chiedergli, unico nel coordinamento: «Ma se io ti voto come soluzione d’emergenza, tu ti impegni a non ripresentarti al congresso?». Lui rispose bruscamente: «Se me lo chiedi così e in questa sede, non ti rispondo». Poi Franceschini disse pubblicamente che il suo compito sarebbe terminato a ottobre, «ma io sentivo nell’animo che non era vero». Il giudizio su Dario è impietoso. Parla di rinnovamento «tardivamente e poco credibilmente». Viene dalla Dc, ma dalla Dc non ha imparato: «Non ha preso la pastosità di Moro, o la tolleranza di Andreotti o di Forlani». Ergo: «È la coda dell’ultimo drammatico anno del Pd, non una guida per il futuro».
Ora che l’Ulivo è fallito perché ha «scambiato il potere con il governo», ora che il Pd «soprattutto al Sud, è un partito apparatizio, non pienamente democratico, dominato dalla forza delle lobby», Bettini punta su Ignazio Marino.

Perché è «una persona normale», il che, par di capire, è già qualcosa in un partito di scissi e pavidi. Ma soprattutto perché solo se vincerà il terzo incomodo il Pd sarà al riparo «da possibili brutte avventure». Prima fra tutte, avverte, la scissione.

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