Biagi partigiano ma non troppo

Caro Granzotto, se mi consente vorrei tornare su Enzo Biagi e sul suo funerale, nella fattispecie sul coro di «Bella Ciao» intonato nel mezzo della tumulazione. Essendo il popolare canto l’inno dei partigiani porta a pensare che Biagi fu membro attivo della Resistenza e dunque antifascista con denominazione di origine controllata. Ma per quanto frughi nella mia memoria non ricordo di avere mai letto o sentito qualcosa che si riferisca alle sue gesta di partigiano. Lei che ne sa certo più di me potrebbe rassicurarmi sulla partecipazione di Biagi al movimento antifascista e partigiano?


Enzo Biagi non ha mai platealmente rivendicato meriti antifascisti, caro Fabbri. Ha lasciato che altri lo facessero, ma, col curriculum che si ritrovava, sull’argomento il Venerato Maestro ha sempre preferito sorvolare. Balilla e Avanguardista, membro della Gioventù del Littorio e del Gruppo universitario fascista, Biagi non trascurò nessuna occasione per inquadrarsi e servire fedelmente il Duce. Con uno zio reduce della marcia su Roma ed un cugino Sottosegretario alle Corporazioni, probabilmente ce l’aveva nel sangue, il fascismo. Naturale, quindi, che anche da giornalista servisse con zelo e disciplina gli interessi del regime. Marcello Staglieno, che negli archivi sta come il topo nel formaggio e al quale non è mai sfuggita una sola virgola di quanto fu scritto nel Ventennio, ha ricordato che nel ’41 Biagi elogiava «l’opera di purificazione indispensabile specialmente nelle maggiori città dell’Italia (Roma, dove ci sono troppi ebrei, compresa)» o così commentava «Süss, l’ebreo», film voluto da Himmler: alla sua visione «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo, e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». È poi noto che fu al soldo del Minculpop come inequivocabilmente risulta dal versamento di 3mila lire al «Rag. Enzo Biagi» disposto, appunto, dal ministero della Cultura Popolare.
Fu solo nel marzo del 1944 - quindi ben dopo il Gran Consiglio, la caduta di Mussolini e l’8 settembre; quindi con gli Alleati che già risalivano la Penisola; quindi in pratica a cose fatte - che il tenente Enzo Biagi voltò le spalle al fascismo affrettandosi a salire sul carro dei vincitori. Un bel giorno inforcò la bici e intrepidamente pedalò alla volta dell’abetaia della Segavecchia laddove si unì al «Gruppo Legnano» del Corpo italiano di liberazione, i «partigiani» con le stellette (che non cantavano «Bella Ciao», ma caso mai la versione italiana di «Lili Marlene»). Di gesta guerresche o guerrigliesche a danno del tedesco invasor non v’è traccia nemmeno nelle memorie dell’interessato, memoria che però si risveglia il 21 aprile del 1945, giorno in cui le truppe alleate polacche entrarono in Bologna (Biagi col «Gruppo Legnano», vi mise piede il giorno seguente). Mezzo secolo dopo i fatti il Venerato Maestro raccontò che la prima persona a venirgli incontro nella città liberata fu - potevamo dubitarne? - la vedova (originaria di Pianaccio, il borgo natale di Biagi: neanche si fossero dati un appuntamento) di un giustiziato dai fascisti. Anche la memoria, quindi, si fa guidare dal conformismo.

Ragion di più per ritenere giusto, caro Fabbri, che in un tripudio di peana Enzo Biagi sia stato elevato a simbolo «dell’Italia che non si arrende». Nel senso, mi par chiaro, di non piegarsi, di non darsi per vinta e caparbiamente ambire a restare quella che è: l’Italia del Franza o Spagna purché se magna.

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