
È appeso a un filo sottilissimo il concerto di Valery Gergiev di domenica. La direzione della Reggia di Caserta, ente ospitante, si è sfilata: niente concessione della dimora borbonica alla Scabec, società organizzatrice della Regione Campania. A sua volta, la Scabec non ha ancora sciolto le riserve. È ormai una questione di principio, di politica, di scontro tra istituzioni. In mezzo, lui: Valery Gergiev, uno dei cinque più grandi direttori al mondo, a cui è stato negato il podio. Perché non si è mai dissociato dalla guerra russo-ucraina, perché è una figura centrale del potere culturale russo. Potrebbe andarsene quando vuole: è ultra milionario, l'Occidente lo accoglierebbe. Ma la Russia, per lui, è una seconda o forse prima pelle. E lì resta. E restando lì, da capo di due teatri statali, le conseguenze sono inevitabili.
L'annuncio del concerto aveva scatenato un vespaio. Mancavano solo Zeus e suo figlio Apollo. Tutti hanno detto la loro, almeno in quest'area d'Europa. Altrove, la notizia non ha fatto rumore.
Ieri mattina la direzione della Reggia ha negato l'uso della sede. La scelta è stata accolta con soddisfazione da molte forze politiche che avevano chiesto un passo indietro al presidente De Luca. Il ministro della Cultura, Giuli, ha espresso "pieno e convinto sostegno" alla decisione, "necessaria anche per la strumentalizzazione ideologica seguita all'annuncio". Il presidente dell'Associazione Cristiana degli Ucraini in Italia ha parlato di "vittoria del buon senso". L'ambasciata russa a Roma ha invece criticato duramente la chiusura.
La prima richiesta di cancellazione era arrivata da Yulia Navalnaya. Poi petizioni, una lettera a Ursula von der Leyen. Intanto a Bologna si chiede di annullare il concerto del pianista filorusso Alexander Romanovsky. E via con la caccia alle streghe.
In tanto bailamme, sorge la domanda: che idea di cultura vogliamo costruire? La musica è un linguaggio universale. Ieri lo ha ricordato anche la Chiesa casertana, intervenuta a sostegno del concerto.
Abbiamo chiesto ad alcuni professori dell'Orchestra di Salerno e della Scala presenti all'ultima recita diretta da Gergiev prima del bando del 2022 cosa ne pensassero. "È un direttore illuminato - una delle risposte - va oltre la partitura. Ti guarda con occhi demoniaci e tu lo segui. Ha un magnetismo pazzesco, una sensibilità estrema. Tira fuori dalla musica cose che altri non vedono".
La leggenda lo precede. Arriva all'ultimo, parla poco, prova il necessario. Tiene un pettine nel taschino e si sistema i capelli prima di salire sul podio. "Capita che si presenti con uno stuzzicadenti rimasto dal Margarita bevuto all'Hyatt. Ma ci manca molto", confessa uno scaligero. Diversi direttori artistici di teatri e festival ci hanno detto di volerlo ancora. Ma se prima temevano le reazioni, oggi rinunciano in partenza. E comunque: lo si dice sottovoce, nei corridoi, "inter nos". Sia mai.
La vicenda è stata mal gestita. Considerata la delicatezza, forse qualche passaggio istituzionale in più, all'inizio, si poteva prevedere, specie con Regione e ministero su posizioni opposte.
Resta un doppio standard. Daniel Oren, israeliano, è direttore stabile a Salerno. Nessuno gli chiede da che parte stia sul conflitto in Medio Oriente. Israele, come la Russia, è patria di grandi musicisti. E nessuno giustamente pretende prese di posizione. Neanche Peter Gelb, sovrintendente del Metropolitan di New York e tra i più ostili a Gergiev (sua moglie dirige un'orchestra ucraina), ha posto il problema ai colleghi israeliani.
Si può dissentire, indignarsi, applaudire o restare indifferenti.
Ma la libertà anche quella di ascoltare un direttore controverso resta il vero banco di prova di ogni democrazia. Una cosa è certa. Questo non concerto, passerà alla storia. E speriamo che chi tanto discettava su Gergiev storpiandone il nome prova evidente di quanto lo ignorasse ora almeno lo abbia imparato.