Far dimenticare Romano Prodi. La plebiscitaria chiamata di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico esprime un'ansia che nell'Unione è stata a lungo repressa, ma che all'improvviso si è manifestata quasi come uno sfogo liberatorio. Al di là dei calcoli tattici, delle caselle da riempire, dei rimpasti di governo, del toto-successione a Palazzo Chigi, questa appare la vera missione di cui viene investito il sindaco di Roma, l'inventore della «bella politica», il primo grande comunicatore della sinistra italiana, o come lo si vuole definire.
Cioè il compito di sbianchettare il fallimento dell'Unione e l'asfissia di una politica che ha paralizzato il Paese e che ha coinvolto un'intera leadership, con una sola eccezione: appunto lui che, dal 2001, si è sottratto alle miserie e al logoramento delle piccole schermaglie, trovando riparo nella maestà del Campidoglio, nella scrittura dei libri, nei messaggi di alto profilo sul destino dell'uomo e del mondo.
Questa è la novità. Prende corpo un tentativo di rispondere alla domanda su come liberarsi di Prodi, aggiungendovi l'ambizione ben più impegnativa di farlo dimenticare, di cancellare l'impatto di un anno di devastazioni. Forse addirittura un'intera e lunga stagione del bipolarismo.
Fino all'altro giorno, mi sembrava un non senso l'idea di costruire il Partito democratico senza affidarsi a Veltroni, che ne è il leader naturale per tante ragioni. Ovviamente la prima è che ne ha sempre espresso l'aspirazione e ne ha faticosamente indicato il percorso. Ma i motivi veri sono più profondi. Vale la pena di ricordarli. È stato un innovatore del linguaggio, in un'area culturale ferma ad un lontano passato. È stato un tessitore politico, in uno schieramento segnato da conflitti, rotture, scissioni, liti da bottega. È stato - e resta - un uomo di potere capace però di non confondersi con la «casta». Non si è mai affidato a messaggi ristretti all'ambito della politica, anzi ha scavalcato quei confini. Ha scansato la crisi della «sua» sinistra costruendo un carisma attraverso il dialogo non con blocchi sociali, ceti o corporazioni, ma con i singoli. Parlando soprattutto del futuro e del posto che ciascuno può avervi. Non è catalogabile in alcuna delle voci del dizionario politico, non è un «riformista», non è un «socialista», non è un «moderato». Rappresenta al meglio la genericità dell'aggettivo «democratico», attraverso un metodo che il professor Giovanni Sabbatucci ha definito di «populismo inclusivo».
Basta solo questa sommaria descrizione del «veltronismo» a dirci che sarebbe stato un assurdo non imprimere da subito questo marchio al nascente Pd. Tanto più assurdo nel momento in cui anche l'Unione ha dovuto porsi il problema del dopo-Prodi e del ripudio, ormai dilagante nell'opinione pubblica, nei confronti della sinistra che sta governando.
È un'impresa possibile? Le incognite sono tante.
Renzo Foa
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