Bignami: «Adriano prigioniero da 30 anni dello stesso delirio»

L’ex capo di Prima linea autore pentito di diversi delitti: «Sembra una civetta impagliata sulla porta di casa, il suo ragionamento è pericolosissimo e perverso»

da Milano
Lo chiama cortocircuito. «Un cortocircuito fra ragione e cuore. Noi terroristi eravamo così - spiega Maurice Bignami - accecati dall’ideologia e legittimati dai buoni sentimenti. Eravamo in buona fede, ma uccidevamo. Io, io ero chiuso dentro una bolla spazio temporale: quando ne sono uscito ho visto tutto il male commesso, l’immane disastro, i morti. E mi sono vergognato. Non capisco perché trent’anni dopo, Adriano Sofri sia ancora prigioniero di quelle posizioni: mi sembra la civetta impagliata sulla porta di casa».
Maurice Bignami fu uno dei capi di Prima linea e con Sergio Segio si è assunto la responsabilità di una lunga e feroce lista di esecuzioni. Ed è dalla fossa del passato che parte il suo ragionamento: «Quando con altri entrai all’Università statale di Milano e ammazzai il professor Galli avevo tutte le motivazioni di questo mondo. Ma ero dentro un delirio».
Sofri dice che gli assassini di Calabresi vollero vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca. Insomma, non erano uomini malvagi.
«Certo, il male si traveste sempre, i terroristi sono sempre alla ricerca di un alibi, anzi di una giustificazione, di più ancora, si sentono portatori di nobili sentimenti».
Nobili sentimenti?
«Sì, il terrorista è convinto di sentire il grido di dolore del mondo, pensa di essere una persona molto sensibile e si sente buono: il suo compito è sconfiggere i cattivi e i prepotenti. Invece...».
Invece?
«Invece il male ribalta. Il male è oggettivamente male. È morte, divisione, sofferenza, dolore, crudeltà».
Nel suo caso?
«Io sono cresciuto fra la Francia e Bologna col mito della Resistenza tradita. Mio padre Torquato era stato commissario politico della libera Repubblica di Montefiorino, capo partigiano sull’Appennino, era stato il primo comunista a scappare a Praga alla fine della guerra. Figurarsi se non ero animato, come dice Sofri, da buoni sentimenti. Quando entrai alla Scuola di amministrazione di Torino e con altri gambizzai dieci dirigenti ero animato da buoni propositi, da alte motivazioni, da grandi speranze di cambiamento».
Oggi?
«Oggi mi vergogno di quella stagione, ma di giustificazioni ne avevo a pacchi. Prima linea non è un fungo: Prima linea nacque dall’esperienza di molti giovani che erano passati per Lotta continua e Potere operaio: io provenivo da Potere operaio, Sergio Segio, l’altro leader, da Lotta continua. Ma questo ora non significa più nulla».
Perché?
«Perché la realtà mi fece rapidamente capire, già in carcere, che vivevo in una bolla. Ero fuori dal mondo. Ero solo un portatore di ideologia, di pessime idee. Per quelle idee batteva il mio cuore, ma questo non attenua il giudizio assolutamente negativo su quella stagione insensata».
Adriano Sofri?
«Era una cattivo maestro. Ma sembra rimasto imprigionato dentro quella definizione e quella storia. Peraltro, è forse l’unico cattivo maestro che ha pagato. È la vittima sacrificale che paga per tutti».
Sofri collega l’omicidio Calabresi a Piazza Fontana.
«Ma sì, anche Al Qaida richiama, non senza ragione, le sofferenze dei palestinesi nei Territori o le bombe americane. Sofri dovrebbe capire che con questa logica si può arrivare a giustificare tutto, compreso l’orrore dell’11 settembre».
Sofri attacca Luigi Calabresi per l’indagine su Piazza Fontana.
«Incommentabile».
L’omicidio Calabresi fu, secondo lui, la risposta di chi disperava della giustizia pubblica. Anche Prima linea agiva seguendo lo stesso impulso?
«Certo, il terrorista coltiva sempre l’idea di dover supplire alle mancanze, vere o supposte, del potere politico. E così apre le porte alla violenza e alla sopraffazione. Ma non se ne accorge, è imbottigliato nell’ideologia e l’ideologia gli fa vedere solo un pezzo di realtà, lo costringe a compiere analisi che poggiano su circostanze vere ma parziali. Ci vuole tempo per capire, perché la realtà finalmente affiori e vinca sul delirio».
D’accordo, ma qui parliamo di un delitto del 1972. Trentasei ani non bastano?
«Non so perché Sofri sia come la civetta inchiodata sulla porta.

Certo, svolge un ragionamento che riporta sopra ogni parola il passato, come una zavorra pesantissima. Un ragionamento pericolosissimo e perverso: forse, ma è solo una supposizione, la sua è l’ostinazione del cattivo maestro che non vuole, o forse non può, scendere dalla cattedra su cui era salito tanti anni fa».

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