Bimbo allevato tra gli uccelli Cinguetta invece di parlare

È la «sindrome di Mowgli»: la madre lo circondava di volatili

Sono sette anni che parla solo con gli uccelli. La sua è una di quelle storie che raccontano degrado e abbandono. Sono le storie incredibili, di quelle che non riesci a capirle mai fino in fondo, anche se ti sforzi di immaginarle, di immedesimarti.
E allora intravedi quella stanzetta che odora di chiuso, in quella periferia dimenticata di Kirovskiy, Volgograd, nella Russia orientale, dove quel bambino cresce lontano dagli uomini, lontano dal mondo, circondato da gabbie stracolme di uccellini che canticchiano, gracchiano, raspano sul fondo della gabbia, si beccano per un grappolo di miglio, si spiumano a vicenda nelle poche ore di sole, sbattono le ali stipati nelle voliere e smuovono la polvere. Con loro c’è una donna di trentun anni, ossessionata, sicuramente malata, lasciata sola nella sua follia. È la mamma del bambino. Lei, come raccontano adesso gli assistenti sociali, si è sempre prodigata verso i piccoli volatili, ma non si è mai occupata del figlio. Gli dava solo da mangiare.
Oggi, dopo sette anni passati in quella stanzetta, lui sa solo cinguettare in varie sfumature. Imita quello che ha sentito da sempre, come i pappagalli che sanno riprodurre il rumore della caffettiera. Così lui, a volte, unisce al cinguettio il movimento delle braccia, come a mimare lo sbattere delle ali, ma non conosce una sola parola.
I giornali russi che hanno subito riportato la notizia parlano di «Sindrome di Mowgli», dal nome del protagonista del romanzo di Rudyard Kipling, «Il libro della giungla». Mowgli, il ranocchietto, è il bambino indiano che cresce abbandonato nella giungla, che dorme tra le braccia dell’orso Baloo, che gioca con la pantera Bagheera. Ma i libri della giungla non sono solo fantasia. Un anno fa, a gennaio, le fotografie di Rochom P’ngieng hanno fatto il giro del mondo: occhi impauriti e ancora gonfi di lacrime. Quella ragazzina tutta ossa di 27 anni era stata recuperata dalla foresta dopo diciotto anni.
Cresciuta a stretto contatto con gli animali non sapeva parlare né farsi capire. Aveva paura, se qualcuno si avvicinava mostrava i denti come le fiere. L’unico gesto che ripeteva fino allo sfinimento era indicare fuori dalla tenda dove l’avevano portata. Lei continuava a indicare verso la foresta, verso casa sua. Lei oramai con il mondo civile non voleva più avere niente a che fare, la sua partita con il destino le sembrava avesse preso una strada completamente diversa. Rochom P’ngieng era scomparsa da casa nel 1989, ormai quando aveva 8 anni. Ma la storia del bambino di Volgograd non è l’unica nel Paese.

Solo negli ultimi due mesi sono stati registrati altri cinque casi in Russia, sono tutte storie di incuria e squallore, storie che raccontano infanzie dimenticate negli orfanotrofi strapieni, tra il rumore di una nuova Russia che si affaccia opulenta e sfacciata verso l’Occidente.

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