Non cè in Italia una terra insieme saggia e brutale, e in questo senso misteriosa, come quella di Sicilia. Non ci si può stupire, dunque, che sia luogo deccellenza di racconti dalle atmosfere nere. Come quelle del romanzo di Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, che imparammo ad amare da giovani. Anche oggi è dallisola che viene il re in carica del giallo italiano, Andrea Camilleri. Le trame di cui è protagonista il suo commissario Montalbano sono intriganti, i protagonisti decisi e convincenti. Forse la lingua, ogni tanto suona appena caricaturale, quasi quella - come ha osservato lirriverente Andrea Marcenaro - di un Tiberio Murgia, lattore sardo che rappresentava a tinte forti personaggi siciliani come nellindimenticabile I soliti ignoti...
Questo non si può dire del fulminante romanzo di Giuseppe Sottile, in libreria in questi giorni, Nostra Signora della Necessità (Einaudi, pagg. 107, euro 10): è la lingua dello sperimentato giornalista siciliano che innanzi tutto conquista. I soprannomi («uimmiruteddu = uno strano gobbetto», «lo chiamava attasso = intruglio che quando meno te laspetti può rovinarti il sangue») le battute («era ammartuccato = con le ali cadute», «mi guadagno il pane facendo lo spicciafaccende»), gli intercalare («chi si guardìa, si salvò», «domanda che ci domandiamo»): è la lingua che ti porta subito lì, allOra di Palermo, negli anni Settanta, a fare cronaca nera in una stagione cruciale di mafia.
La storia è quella, largamente autobiografica, di un biondino, studente di filosofia, di origine contadina, con molta fame, che accoppia lo studio a un impiego al mercato del pesce, come «pesatore», e, poi, a quello di cronista nel giornale dei «comunisti», peraltro luogo ricco di professionisti di valore. È un racconto segnato dalla storia di quegli anni: dal Comune di Salvo Lima e Vito Ciancimino, dal sequestro di Mauro De Mauro, dallinizio della Grande guerra di mafia, dallarrivo della droga in Sicilia, fino alle traversie editoriali che investono i quotidiani legati al Pci. Si raccontano gli scoop dei due giovani biondini (oltre al giovane cronista, cè un giovane fotografo anche lui sulla via della gloria, e della fame), si regalano preziosi insegnamenti di come si diventa un buon giornalista, si dà il sapore di quel che significa lavorare in un ambiente comunista, anche quando non lo si è, quando si è non un rivoluzionario ma un «piscialetto». Si fa capire il peso e la pervasività della mafia, la sua aspra rozzezza e le finezze dei suoi molti fiancheggiatori: illuminante il ritratto del giornalista pigro (ma legato alla mafia) che fa scattare lintimidazione che chiude il romanzo.
La grande storia non invade il racconto, ne è lo sfondo naturale. È la formazione del biondino, la sua educazione alla professione (e alla vita), la voglia di scoprire unita alle intimidazioni imposte (descritte senza nessun poco credibile postumo eroismo), lorgoglio per i colpi giornalistici unito a unombra di vergogna per le forzature inferte alle vittime di quegli stessi colpi.
Quel che impressiona in Nostra Signora della Necessità, nome di una chiesa palermitana che ha un ruolo nel romanzo oltre che implicita metafora del fatalismo siciliano, è la solidità unita alla leggerezza: i fatti di cui si scrive sono solidi, pesanti, la trama descritta è quella di avvenimenti particolarmente duri; ma lo spirito con cui si delineano queste vicende è quello che solo alcuni dotati scrittori sanno usare. Quelli che sanno come non sono sempre le tinte forti a produrre le descrizioni più convincenti del male.
Unultima considerazione. È noto che i giornalisti, per non parlare dei politici, sono romanzieri scadenti: il loro ritmo, la loro logica non sono adatti al racconto lungo. La loro lingua è adatta a fotografare, non a dipingere, i fatti. Questa convinzione, frutto peraltro di tante esperienze di lettura, è smentita dal raccontare di Sottile: che è proprio pittura, non fotografia.
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