Birobidzhan, terra promessa (da Stalin)

Il 13 gennaio 1953 la Pravda annunciava a titoli cubitali: «Arrestato un gruppo di Medici sabotatori», con un editoriale in tipico stile sovietico che denunciava «mostri e assassini... che avevano progettato di eliminare i capi delle forze armate». Si trattava di «agenti prezzolati dagli americani e dal Joint, l’organizzazione spionistica sionista».
Una delle pietre angolari del comunismo, scrive Massimo Longo Adorno, è il mito che il governo socialista e la coscienza proletaria eliminino automaticamente i conflitti nazionalistici. Eresia storica che tanto ha affascinato gli intellettuali di sinistra e che trova negli ebrei una scomoda permanente sconfessione del dogma leninista - tuttora sostenuto non solo dagli arabi - secondo il quale gli ebrei non sono una nazionalità. Ma cosa fare, a seguito della rivoluzione, dei milioni di ebrei russi che continuavano a vivere secondo i dettami di una religione nazionale che nella lingua, nel vestire, nelle ricorrenze sacre rivelava una identità collettiva più tenace di qualsiasi altra nazionalità? Che fare poi di quegli ebrei comunisti che avevano dato alle rivoluzioni e ai movimenti marxisti in Europa un contributo non paragonabile a quello degli altri popoli? La soluzione trovata da Stalin nella sua veste di Commissario alle nazionalità fu un escamotage politico territoriale, uno «stato degli ebrei» ante e anti sionista creato sul confine della Siberia con la Cina: il Birobidzhan.
Alessandro Vitale ha descritto questo stato come «la prima Israele» in una affascinante ricerca storica, politico-sociale per la collana Attualità & Studi dell’editore Casagrande di Lugano (La regione ebraica in Russia, pagg. 236, euro 20). È un libro che ha molti pregi di contenuto ed editoriali. Questi ultimi, che spesso mancano anche ai migliori testi italiani, si rivelano tanto nella cura della stampa quanto nella aggiunta di «Apparati» - cronologia, glossario, indice dei nomi e dei luoghi, bibliografia - che fanno la delizia dello studioso.
Che cosa rappresenta oggi il Birobidzhan? Un progetto fallito? Se lo chiede Sergio Romano nell’introduzione, che, come spesso succede con le sue introduzioni, si trasforma a sua volta in un piccolo libro nel libro. Un fallimento, certo, se lo scopo dell’esperimento era creare una piccola patria ebraica comunista all’interno della grande patria sovietica. Ma Birobidzhan ha prodotto «due risultati imprevedibili». Anzitutto quello che Romano definisce i caratteri dominanti - lingua, simboli, sinagoghe - che la sparuta minoranza ebraica ha impresso all’intera regione. In secondo luogo il sincretismo religioso provocato dall’accettazione degli altri gruppi nazionali di un predominio culturale ebraico che ha creato un «curioso impasto di ebraismo, cristianesimo, buddismo, culti sciamanici fortemente diluito dall’ateismo, religione ufficiale dello Stato sovietico».
Si tratta, insomma, di un aspetto molto particolare e quasi sconosciuto dell’eterno «problema Israele». Questo è il titolo di un altro, molto differente, informativo libro che Luca Riccardi ha scritto per l’editore Guerini (Il «problema Israele». Diplomazia italiana e Pci di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), pagg. 478, euro 29,50).
Diviso in sei corposi capitoli sostenuti da un minuzioso apparato scientifico, il libro percorre le tappe di una «rotta» diplomatica che si sviluppa fra la Scilla e la Cariddi delle attrazioni ideologiche e delle necessità politiche.

Una rotta che termina nel testo con la guerra arabo israeliana del l973, e che diventa illuminante per capire la condotta attuale della diplomazia italiana, diretta per la prima volta da un ministro degli esteri ex comunista nel governo di centrosinistra di Prodi alle prese con la nuova guerra di Israele nel Libano.

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