Divide et impera, consigliavano gli antichi. E si riferivano alla geopolitica. Ma il motto vale anche in letteratura, anzi, sul mercato editoriale. Dove gli autori che «dividono» sono sempre quelli che «dominano», sia in termini di fama mondiale, sia quanto al conto in banca. Jonathan Franzen, il 51enne statunitense che nove anni fa fece boom con Le correzioni, è ovviamente tra questi. Amici e nemici lavorano tutti per lui.
Acerrimo nemico è il critico più ascoltato dAmerica, Harold Bloom. «È decisamente sopravvalutato», ha detto commentando i giudizi al miele formulati da alcuni suoi colleghi. Del resto, the professor, abituato comè a disegnare i confini del Canone Occidentale, da Dante a Emerson, passando per Shakespeare e Freud, non potrebbe curarsi di uno che finora ha scritto poco (e secondo lui maluccio). Ma anche Newsweek ha la mano pesante. Recentemente ha definito Franzen «stanco» (leggi vuoto di idee e contenuti), per poi dargli dell«insopportabilmente presuntuoso».
Di segno opposto le parole del New York Magazine, secondo cui Freedom, il romanzo che il presidente Obama sè portato in vacanza lestate scorsa e che sta per uscire in Italia da Einaudi, è «opera di un genio». Mentre alla New York Times Book Review basta una parola, quella sognata da tutti gli scrittori del mondo: «capolavoro». E il Publishers Weekly si sdilinquisce così: «Franzen si dimostra ancora una volta un geniale maestro nel ritrarre le inquietudini nascoste di unintera nazione».
Lui, Jonathan, dallo studio newyorkese insonorizzato dove lavora sembra insensibile al bene e al male e fa sapere: «Cerco di non leggere certe cose perché poi mi sarebbe difficile togliermi dalla testa le frasi che più mi hanno ferito e non mi piace andarmene in giro avendo brutti pensieri nella mente».
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