Bocchino assapora la vendetta: fare le scarpe a Gianfranco

RomaParadossalmente chi in fondo potrebbe godere del pantano monegasco in cui è caduto Fini è l’uomo a lui più vicino. Per ora. Ossia quell’Italo Bocchino che, approfittando del mutismo imbarazzato del suo capo, parla un giorno sì e l’altro pure vestendo i panni del vero leader. Instancabile tessitore di manovre politiche, Bocchino strappa e cuce, fa e disfa, tiene contatti con la truppa e con la stampa, dialoga con i poteri forti e con i big degli altri partiti. Mentre Fini s’immerge solitario in quel di Ansedonia, la testa rivolta alle beghe familiari del clan Tulliani, Bocchino da Panarea conciona di politica con il senatore del Pd Raffaele Ranucci ma non solo. Uno, Gianfranco, dibatte con Elisabetta e la signora Frau sulle magagne del rampollo Giancarlo e costruisce la strategia difensiva coi propri legali. Parla di cucine, terrazzini, ammezzati, tinelli di Montecarlo e schedine del Superenalotto. L’altro, Italo, questiona con Paolo Mieli e Pier Ferdinando Casini sulla situazione politica e studia le tattiche in vista della ripresa dei lavori parlamentari.
Magari nei retropensieri di Bocchino potrebbe esserci anche questo: fare le scarpe a Fini per togliersi un sassolino dalla scarpa. Perché s’è vero che la politica è alchimia e giravolta e un giorno uno sta con Tizio e il giorno dopo sta con Caio, è anche vero che i meridionali sanno essere rancorosi. Non dimenticano. E Italo è un campano doc, uno che così come ha guaito per l’epurazione berlusconiana non può aver dimenticato un’altra epurazione. Quest’ultima subìta proprio da chi oggi è il suo capo, la sua guida. Mica tanto tempo fa. Elezioni politiche del 2006: An presenta le liste e Fini piazza Italo in fondo in fondo. Campania 2: capolista Fini, poi Mario Landolfi, poi Edmondo Cirielli, poi Giulia Cosenza, poi Italo Bocchino. Dietro di lui soltanto Roberto Capezzone, ex senatore. Che nervi. Uno sgarbo, un affronto, uno schiaffo. Risultato elettorale: primo dei non eletti, Bocchino Italo. Praticamente segato, fatto fuori, trombato. E perché mai? L’anno prima s’è candidato alla presidenza della Regione Campania e il suo flop è colossale: 61 per cento Bassolino, 34 per cento Bocchino. Lui assicura che farà opposizione in consiglio regionale ma poi cambia idea e lascia il posto troppo misero del parlamentino campano: «Nei prossimi mesi ci sarà un nuovo assetto istituzionale nel Paese. Mi sembrava un tradimento non partecipare a questa fase», spiega. Tradotto: meglio gli agi e la visibilità romana rispetto al duro lavoro campano per preparare la rivincita al reuccio Bassolino. Ah sì? E allora in lista, alle politiche del 2006, ci vai in un’altra Regione, magari del profondo Nord. Oppure resti in Campania ma nelle ultime file. Detto fatto: quinto. Praticamente defenestrato. Non eletto. Riesce a entrare in Parlamento per un colpo di fortuna: Fini, capolista ovunque, permette a Bocchino un ripescaggio in extremis. Italo, gli va dato atto, ingoia il rospo con signorilità. Non dice nulla, non protesta, non si mette a urlare per la bastonata ma ci rimane malissimo. Chissà se ora gli è tornata in mente quella vicenda e, sotto sotto, non mediti in una sorta di vendetta.
In fondo da allora la sua ascesa è stata continua e repentina: membro dell’esecutivo nazionale del partito, capogruppo nella prima commissione Affari costituzionali e su, fino a ricoprire, nel 2008, la prestigiosa carica di vicecapogruppo vicario dell’immenso plotone dei deputati del Pdl. Voltando la faccia progressivamente ai suoi mentori politici La Russa e Gasparri, Italo è diventato il più finiano dei finiani. Il solo e unico colonnello del capo. Ma ancora una volta braccio destro, secondo, delfino. Lo era stato dell’ex ministro delle Poste e telecomunicazioni Pinuccio Tatarella, che pare lo trattasse in maniera ruvida non lesinandogli strepitose lavate di capo. E dicono che il centralinista del Secolo d’Italia, sbeffeggiandolo, lo chiamasse «er socetto» perché il «socio» era Pinuccio. Ma da Tatarella Bocchino ha imparato l’arte della politica, fatta di veleni, giochi di potere, attese e colpi d’ala. Da fedelissimo di Fini, Italo s’è ritagliato uno spazio e una visibilità mediatica immensa. Cosa che manda fuori dai gangheri molti altri finiani, allergici alla sua sovraesposizione ed ambizione. Celebre lo scazzo nel cortile di Montecitorio con Roberto Menia, poco dopo l’imbarazzante lite in tv tra Italo e Lupi e soltanto due giorni prima la famosa direzione nazionale del «che fai mi cacci?» di Fini. «Ho detto a Italo, senza peli sulla lingua, di smetterla. Perché già ha fatto abbastanza danni.

Sono stufo delle sue iniziative e delle sue uscite e non mi sento rappresentato da queste persone. Io sono leale a Fini ma anche a Berlusconi, sono al governo grazie al loro». Il colonnello Italo, in quell’occasione, abbassa la testa. Forse pensando: «Vedrai quando divento generale...».

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