Con tutto il rispetto per Hannah Arendt, questa storia della «banalità del Male» sta diventando un pericoloso luogo comune. E, come tale, fa a sua volta del male. Perché dietro a «banalità» si nascondono subdole aree semantiche quali «semplicità», «ottusità», «normalità», «prevedibilità». Tutta roba non «brillante», non «geniale», non «eccezionale», ma... insomma, in qualche modo governabile, gestibile.
Invece no. Se usciamo dalla retorica e dalla filosofia per rientrare nella realtà, il Male non è mai banale. Il Male è sempre nuovo, stupefacente, inaccettabile. Anche quando si nasconde dietro un cretino, un «utile idiota», un soldato cacasotto.
Prendiamo Jürgen Stroop (1895-1952). La vulgata banalizzata ne ha fatto il pulsante che qualcuno ha pigiato per accendere la macchina della Grossaktion, cioè della disintegrazione del ghetto di Varsavia, durata dal 19 aprile al 16 maggio del 1943. Un pulsante, una rotella di media grandezza dell’ingranaggio che sgretolò 71mila persone. Ma chi si prenderà la briga di leggere Conversazioni con il boia, di Kazimierz Moczarski (Bollati Boringhieri, pagg. 440, euro 20, traduzione di Vera Verdiani, da oggi nelle librerie) scoprirà che le cose non sono poi così semplici. Né banali, appunto.
Stroop, qui, è il protagonista di un dramma carcerario. La cui trama sta tutta in una frase: tre uomini condividono per 255 giorni una cella del penitenziario di Mokotóv, a Varsavia. Fine. Nel senso che tutti e tre attendono la fine, della pena o della vita, fa lo stesso. Con il generale nazista ci sono un altro nazista, Gustav Schielke, ex poliziotto della buoncostume, e un polacco, l’autore del libro, finito in galera per volere di altra gente abituata a pigiare pulsanti, vale a dire i padroni comunisti di una Polonia giunta allo stremo. Dal 2 marzo all’11 novembre del ’49, tra furiosi litigi e tenere confessioni, ispezioni a sorpresa dei secondini e occhiate malinconiche fuori dalla finestra, si dispiega un quadro in cui il Male sta sempre in primo piano, ma immerso nel paesaggio degli eventi, delle storie e della Storia.
Moczarski terminò questo sconvolgente documento nel ’68. Quasi vent’anni di lavoro. Passati a rimettere ordine nella propria memoria e a riempire, con ricerche d’archivio e raccolta di testimonianze, i vuoti lasciati dal pur loquace Stroop, il suo deuteragonista (mentre il disilluso Schielke, con le sue battute - alcune esilaranti - serve, a noi lettori, come fisiologica valvola di decompressione...).
Stroop era nato Josep, ma si ribattezzò Jürgen, nome molto più germanico. Stroop venne al mondo con le stimmate dell’orgoglio teutonico, avendo visto la luce a Detmold, a un passo dalla foresta di Teutoburgo, dove, nell’anno 9 dopo Cristo, Arminius alias Hermann, principe della tribù germanica dei Ceruschi, le suonò di santa ragione a quei «maccaroni» ante litteram delle legioni romane guidate da Varo. Stroop da piccolo voleva fare il pompiere perché i pompieri andavano a cavallo, e lui amava alla follia i cavalli (ne salverà un centinaio, dai roghi di Varsavia, e non perderà occasione di rammaricarsi per il fatto che il Führer quelle bestie non le poteva vedere, dal giorno in cui una di esse, evidentemente con qualche goccia di sangue giudaico nelle vene, gli rifilò un bel calcio). Stroop s’innamorò di una deliziosa polacca, ma «diventò uomo» grazie a una contadina romena; sposò, lui, cattolico, una protestante; ebbe (orrore) una femmina come primogenita; il suo primo erede maschio, Jürgen, visse pochi giorni; il secondo, Olaf, aveva paura degli aerei. Stroop, un minuto dopo la fine della prima guerra mondiale, non vedeva l’ora che cominciasse la seconda.
Stroop si vergognava della sua fronte troppo larga, rispetto ai canoni frenologici «nordici», e del suo petto villoso (per questo si depilò come una checca). Stroop odiava i libri degli altri. Stroop prima di mettere a soqquadro il ghetto si fece il segno della croce, come voleva la mamma. Stroop «eseguiva gli ordini».
Stroop non era la banalità del Male. Era, molto più banalmente, un buon nazista.
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