Sostiene Bollani che «non si può piacere a tutti». E, di solito, chi dice così piace almeno a tanti. Lui a tantissimi, per la verità. Un jazzista, signori, che non se ne sta in un cantuccio per i fatti suoi, tanto per essere snob. Ma viene a patti con la realtà. E la conquista, al punto che molta critica lo coccola, il pubblico una volta tanto è d’accordo e i soliti loggionisti che lo stroncano per la sua esuberanza sembrano musicosauri del Pleistocene. Il suo pianoforte è enciclopedico, si piega a tutto perché il jazz non è uno stile blindato ma un alfabeto musicale che si declina in tante lingue diverse. Jazzisti si nasce, insomma. E il jazz vissuto così piace. Eccome. Lo conferma il chiacchiericcio goduto che il suo show in tv (Sostiene Bollani, appunto) ha scatenato ovunque a novembre nonostante andasse in onda a orari da metronotte e, conferma lui, «un mucchio di gente si è lamentata». Perciò Raitre lo ha reimpacchettato nella versione Reloaded: giovedì sarà trasmessa l’ultima puntata di questa edizione perché, scommetteteci pure, ce ne sarà un’altra: «Io lo spero, ci mancherebbe».
Stefano Bollani, che ha 39 anni, ha già messo in scena tante edizioni diverse del proprio estro, pur rimanendo sempre se stesso. «Dopotutto non posso suonare in eterno la stessa canzone», dice. Con Irene Grandi stuzzicava tastiere pop rock nei La Forma, roba di inizio anni Novanta. E le ha suonate anche nell’album Le cose che vivi di Laura Pausini. «Ma non è che fossi così bravo». Gli è andata meglio, accidenti quanto, con il pianoforte. Oggi Stefano Bollani è uno dei jazzisti più famosi del mondo, suona ovunque ed è entrato non solo in classifica (tutte le classifiche, anche quella pop) ma pure nei libri. Per i «critici resistenti» lui rientra nella categoria «bravo però». Il bravo lo capite tutti. Il però dipende dal fatto che è troppo intrattenitore, poco liturgico, troppo poco conservatore e leggete per esempio la monumentale Nuova storia del jazz di Alyn Shipton edita da Einaudi. Insomma, se in concerto a Bollani viene di suonare Pimpirimpettenusa, lo fa e buonanotte ai suonatori (e ai talebani del jazz).
Libero, già.
Aveva in mente di pubblicare un disco con brani di Frank Zappa reinterpretati da lui con la direzione di Riccardo Chailly, proprio come in Rapsodia in blue dedicata a Gershwin. Invece, e l’album uscirà a marzo, suonerà a modo suo il concerto per pianoforte di Ravel «più altre musiche di Stravinskij e Kurt Weil». Per capirci quant’è imprevedibile, nella serata di Capodanno sarà a Riccione con Dario Vergassola e l’Orchestra Sinfonica Rossini: «Mai fatto un concerto del genere, mi sa che improvviseremo quasi tutto». D’altronde lui lo fa spesso e il jazz è proprio questo, improvvisare, al massimo sfruttare un canovaccio, mica mandare a memoria un copione di genere. Però il purista si impunta. E stronca. «Mi dicono che sono troppo intrattenitore. Ma mi sono scontrato così tante volte con quest’accusa che ormai sono diventato fatalista. Tutti mi vorrebbero tirare per la giacchetta ma io non posso essere il musicista che piace a tutti».
Perciò - e si è visto anche nello show di Raitre - il suo pianismo è fluente e passionale, oltre che così colto da poter essere popolare senza vergognarsene. Fosse un attore, Stefano Bollani non sarebbe un caratterista: sarebbe un carattere. E sai quanti imitatori. Come sempre succede, l’ecletismo disorienta. E un pianista jazz che suona in un disco di Claudio Baglioni che si intitola QPGA in onore di Questo piccolo grande amore; e poi conduce su Radiotre un gioiello di programma con David Riondino e Mirko Guerrini che si intitola Il dottor Djembé: via dal solito tam tam (tornerà in onda a febbraio); e incide il concerto Carioca dedicato alla musica brasileira o pubblica il favoloso Piano solo per la Ecm e conduce un programma con Caterina Guzzanti, insomma un tipo così manda nel pallone chiunque abbia un’idea di jazz rigida come la navata centrale di una basilica. Ma tutti gli altri ne vanno matti. «Non ho mai ragionato troppo su che cosa fare.
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