Bologna capitale dell'intolleranza

Il due agosto delle polemiche. La strage del 1980, un pretesto per i soliti insulti al governo. Tra i censurati ma anche Pansa e il sindaco Cofferati: scoppia la violenza ideologica

Bologna capitale dell'intolleranza

Dice Filippo Berselli, bolognese, presidente della Commissione giustizia del Senato: «I fischi non copriranno mai il fragore di quella bomba». Ma la bomba alla stazione di Bologna è scoppiata 28 anni fa e l’eco forse si è affievolita, mentre i fischi sibilano puntuali anno per anno, con ogni governo, con qualsiasi ministro. Piombano come un ritornello triste, un réfrain logoro, un appuntamento scontato.
2 agosto, anniversario della strage e festa nazionale della contestazione di piazza. Pierpaolo Pasolini scriveva che capitalismo e comunismo erano una cosa sola sotto i portici senza alternativa della «Dotta»: oltre trent’anni dopo, inscindibili sono memoria e fischi in una città che il cardinale Giacomo Biffi definì sazia e disperata. Oggi meno sazia e più disperata.

Bologna la democratica, l’antifascista, la capitale rossa, il modello di buona amministrazione del Pci: trapassato remoto, non solo perché il Muro di Berlino è crollato vent’anni fa. Il presente è fatto di intolleranza, incapacità di ascoltare, presunzione, ideologia, violenza.

È la culla del chiasso e della protesta. Se non sei dei loro e osi mettervi piede, l’accoglienza è garantita. Se sei Beppe Grillo e devi gridare vaffanculo tutti, allora ok, non c’è problema, piazza Maggiore si riempie di urlatori e la città dà il meglio di sé ripetendo «vaffa, vaffa». Se invece, per esempio, ti chiami Giuliano Ferrara e vuoi tenere un comizio elettorale a ridosso delle elezioni politiche, piazza Maggiore è ugualmente affollata dagli stessi urlatori che però condiscono i loro «vaffa» con il contorno delle uova marce.

Se ti chiami Sergio Cofferati e hai il curriculum del compagno-sindacalista perfetto, Bologna storce immediatamente il naso perché sei nato vicino a Cremona, non sei emiliano e metti perfino il vino rosso nel brodo. E se da sindaco tenti di mantenere un minimo di ordine pubblico, ti danno dello sceriffo fascista e già dopo due anni di fascia tricolore provano a tagliarti l’erba sotto i piedi cercando uno da mettere al tuo posto.

Se invece hai il curriculum del compagno-giornalista perfetto come Giampaolo Pansa, possiedi un cuore che batte appassionatamente a sinistra, tieni una rubrica sull’Espresso che non fa sconti a nessuno e scrivi un libro che ridimensiona certa mitologia partigiana, a Bologna non ti puoi neppure avvicinare: vieni contestato poco lontano, a Reggio Emilia; vieni intimidito con la violenza, minacciato. E sei costretto a rinunciare alla tappa di Bologna. Se sei un professore universitario consulente di governi di destra e di sinistra che studia come riformare il mercato del lavoro, fai la tragica fine di Marco Biagi.

I fischi in piazza Nettuno, sotto il palco eretto ogni anno per commemorare le 85 vittime dell’esplosione, sono ormai un lugubre classico della bolognesità. Nel 2003 investirono Beppe Pisanu, ministro dell’Interno. L’anno dopo travolsero il suo collega delle Infrastrutture, Pietro Lunardi. Poi toccò a Giulio Tremonti. Il 2 agosto 2006, con il bolognese adottivo Romano Prodi da tre mesi a capo di un governo di centrosinistra, fu l’altro bolognese Giulio Santagata, ministro per l’Attuazione del programma, a fronteggiare le proteste.
Dodici mesi fa le salve dei soliti noti contro Cesare Damiano (Lavoro) furono sovrastate dalla reazione della piazza. Stavolta l’operazione è più raffinata: contestazione tripla. Prima con gli attacchi di Rifondazione comunista al guardasigilli Angelino Alfano, designato in un primo momento a rappresentare il governo. Poi attraverso i giornali, cui l’assessore ed ex magistrato Libero Mancuso ha confidato che ritiene il ministro Rotondi (incaricato di sostituire Alfano) «una persona sconosciuta e del tutto incolore». Poi in piazza, stamattina, inevitabilmente.

Le minoranze intolleranti hanno avuto partita vinta ancora una volta, e ancora una volta la minoranza rumorosa farà scomparire la maggioranza silenziosa. Così taciturna da sembrare addirittura inesistente. A Bologna l’intolleranza è sistematica, preventiva, totalizzante. Anche davanti a una sentenza resa definitiva dalla suprema corte di giustizia. Capacità di ascolto zero, accoglienza non pervenuta, violenza ideologica a mille.

La contestazione procura pagine sui giornali e giornate di presenza televisiva, è una prepotenza che sfrutta il dolore dei familiari delle vittime e alimenta l’odio. Mentre si ammanta di parole come solidarietà e memoria.

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