La bomba di New York parla ancora pakistano

È l’incubo ricorrente. È la maledizione targata Pakistan. È la dannazione di un paese «alleato» inesorabilmente coinvolto, tramite i suoi cittadini, nei peggiori attacchi agli Stati Uniti dall’attentato al World Trade Center del 93, all’11 settembre, fino all’autobomba di Times Square. Stavolta il terrorista - filmato mentre scendeva dal Nissan Pathfinder carico di bombole di propano - non è andato lontano. Il rocambolesco fermo arriva alla mezzanotte di lunedì quando Faisal Shahzad, trentenne di origini pakistane con cittadinanza americana, è già convinto di poterla far franca. A quell’ora il suo volo per Dubai ha lasciato il terminal dell’aeroporto Jfk di New York e si prepara al decollo. Ma a bloccare la fuga arriva l’ordine di rientro impartito dalla torre di controllo su richiesta dell’Fbi. L’identificazione era arrivata solo poco prima ricostruendo la compravendita del fuoristrada acquistato per 1.300 dollari dopo aver risposto ad un annuncio su internet. Il lavoro degli inquirenti è stato facilitato anche dalle tracce elettroniche lasciate su YouTube dove Faisal aveva pubblicato la rivendicazione anticipata del suo gesto. La prova decisiva è però saltata fuori dal registro della Sicurezza interna dov’era segnalata una trasferta pakistana prolungatasi dall’aprile all’agosto 2009. Benché Faisal neghi di aver agito su commissione gli uomini dell’Fbi sono convinti che quel viaggio sia il vero prologo del fallito attentato. Durante quei cinque mesi l’apprendista terrorista fa tappa nelle aree più calde del Pakistan per poi rientrare negli Stati Uniti senza la moglie Huma Mian. Le autorità pakistane hanno già fatto sapere di aver già arrestato il suocero e un amico di Faisal Shahzad. L’aspetto più inquietante per gli inquirenti statunitensi è però l’ennesimo coinvolgimento di un cittadino originario di un paese dove apparati deviati ed esponenti dei servizi segreti sono più volte risultati collusi con Al Qaida e il terrore fondamentalista. Intanto il presidente americano, Barack Obama, assicura che sarà «fatta giustizia» e che l'America «non si farà terrorizzare», si stringe il cerchio degli investigatori attorno ai presunti responsabili.
Incominciò tutto nel 1993 quando il pakistano Ramzi Yousef, basista del primo attentato al World Trade Center, si rifugiò in patria dopo aver piazzato un furgone imbottito d’esplosivo nel parcheggio sotterraneo della Torre Nord. Grazie agli appoggi garantitigli da alcuni esponenti dell’intelligence d’Islamabad l’Fbi impiegò più di tre anni per riportarlo negli Stati Uniti dove oggi sconta una condanna all’ergastolo.
A gennaio di quello stesso 1993 Mir Aimal Kasi, un altro pakistano aveva aperto il fuoco contro un’automobile uscita dal quartier generale della Cia di Langley uccidendo quattro fra agenti e analisti dell’agenzia. Anche in quel caso la fuga si concluse nelle aree tribali del Pakistan. Il caso più clamoroso è però quello di Khalid Shaikh Mohammed, il nipote di Ramzi Yousef che ha confessato, nel corso degli interrogatori di Guantanamo, di aver messo a punto i piani per l’11 settembre e aver poi sgozzato il giornalista americano Daniel Pearl. A favorire il rapimento di Pearl e a consegnarlo a Khalid Sheik Mohammed ci pensò Saeed Sheik cresciuto a Londra prima di tornare in patria e venir iniziato al terrore fondamentalista.

E a rendere il tutto più torbido s’aggiunge la misteriosa storia Daood Gilani, l’americano d’origine pakistana che due anni fa cambia il nome in David Headley, vola in India ed effettua le ricognizioni utilizzate per gli attentati di Mumbai. Arrestato dall’Fbi Headley confessa di aver agito su ordine di un ufficiale pakistano che nessuno però è ancora riuscito a identificare.

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