da Roma
Per una volta si può dare persino ragione al direttore del quotidiano già post-rutelliano Europa, quando scrive che «in ballo c’è la pretesa di una fazione intellettuale e giornalistica di condizionare e orientare l’opposizione, ricattando apertamente il Pd persino sui suoi stessi giornali, come capita alla povera Unità... ». Insomma, gratta gratta, le ultime scorie di giustizialismo affliggono il nuovo corso veltroniano, e l’uscita di quel partito dall’«estremismo alimentato per lustri» (sempre Stefano Menichini dixit) sarà tutta da vedere.
Anche perché è stato proprio Walter Veltroni a voler concedere onori e amplissimo diritto di tribuna al gruppo di facinorosi che ormai fa capo apertamente all’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Un gruppo che trova nel giovane barricadiero Marco Travaglio il proprio alfiere e protomartire in servizio permanente effettivo. Le accuse in tv senza contraddittorio di Travaglio al presidente del Senato, Renato Schifani, toccano nervi mai disinfiammati. E al di là della vicenda oggi all’ordine del giorno del Cda Rai e della riunione dell’Agenzia per le garanzie nelle Comunicazioni - vicenda che Schifani liquida con una querela per calunnia e un «sorriso» - in ballo c’è anche un modo di fare informazione ben spiegato sulla Repubblica dal principe dei giornalisti d’inchiesta, Giuseppe D’Avanzo. Sarà che l’onestà di fondo non ammette confini, D’Avanzo impartisce una bella lezione all’idolo dei «vaffa» Travaglio, svelandone il trucco e il profondo inganno.
Spiega il giornalista di Repubblica: i fatti citati, che inducono un «ascoltatore innocente» a ritenere che Schifani sia «in odore di mafia», erano a conoscenza (se non altro) degli addetti ai lavori fin dal 2002. «Non se n’è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun - ulteriore e decisivo - elemento di verità». Quando però «i fatti sono proposti a un lettore inconsapevole senza contesto, senza approfondimento e autonomo lavoro di ricerca» diventano «sfuggenti e sdrucciolevoli». Frutto cioè di «un metodo di lavoro che soltanto abusivamente si definisce giornalismo d’informazione». Travaglio, sostiene D’Avanzo, «è sincero» nel dire ciò che crede lui, ma «insincero con chi lo ascolta». In una parola: «Bluffa». Non informa il lettore, «lo manipola, lo confonde». Altro che giornalismo d’inchiesta, lo «scaltro» Travaglio «confonde le carte» e si inserisce nella «peggiore tradizione italiana del giornalismo d’opinione che mai si dichiara apertamente come tale».
Ricapitolando: Travaglio manipola e confonde i suoi ascoltatori con un metodo di lavoro che non ha nulla del giornalismo d’inchiesta. Fa politica attiva, cercando di condizionare l’agenda dell’opposizione. Basti pensare all’imbarazzo delle prese di distanza di molta parte del Pd (Anna Finocchiaro in testa), e la natura fin troppo nota dei suoi difensori strenui. Primo tra tutti, ovviamente, Di Pietro. Che parla di «bavaglio all’informazione, cui fa sponda un tacito consenso di questa finta opposizione». Tesi fatta propria da Dario Fo, che ravvede un’«azione bipartisan per imporre il silenzio alla satira e alla denuncia di ogni illecito». Ma che quella di Travaglio non intendesse essere satira è confermato dal classico Paolo Flores d’Arcais, secondo il quale le accuse a Schifani sarebbero «verità di fatto». Semmai colpevole è la Finocchiaro, che «dovrebbe aver letto in Gramsci che la verità è rivoluzionaria».
Si cerca così di condizionare il Pd tenerello di Veltroni, e nel contempo di ricadere nel cliché del martirio. Bice Biagi, da figlia, dice di temere «un nuovo editto bulgaro». Travaglio, da gran furbone, si associa volentieri a quella grande figura di giornalismo televisivo e se ne fa scudo: «Mi fa piacere la solidarietà di Bice Biagi. Peccato che adesso suo padre Enzo non c’è più: un baluardo in meno».
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