Borat fa arrabbiare l’ambasciatore kazakho

«Il comico non conosce il mio Paese e travisa la realtà». Il film in Italia a marzo

Paolo Giordano

da Milano

Dai e ridai, il comico Borat non vuole schiodarsi dalle cronache: adesso si è conquistato anche la bocciatura dell’ambasciatore del Kazakistan a Londra, che in una intervista al Times gli ha puntato il dito contro: «Travisa grossolanamente la realtà».
Dunque il comico Sacha Baron Cohen in arte Borat, che giusto un anno fa aveva presentato gli Mtv Europe Awards a Lisbona nell’indifferenza generale (per di più calandosi nello stesso personaggio del giornalista kazakho che ora scandalosamente travisa la realtà), è il personaggio del momento, forse per mancanza di alternative oppure grazie a quella compiaciuta mania di creare fenomeni altrimenti destinati a piccoli interessi e ancora più piccoli favori di critica.
Volgare, legato a codici comici più anglosassoni che latini, abile come pochi a individuare in ebrei, donne e gay la triade perfetta per la battuta che fa scandalo, il pallidissimo Sacha Baron Cohen ha presentato la sua arte in Italia grazie alla Festa del Cinema di Roma che ha ospitato la sua opera e deve senz’altro un riconoscente mazzo di fiori al Foglio, che lo ha supportato con una lenzuolata di articoli lunga da qui a lì.
Il suo film, che in Italia uscirà a marzo probabilmente nell’indifferenza del grande pubblico, da venerdì è nei cinema americani e inglesi, con un titolo biblico nel senso di lunghezza (Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan) ma una trama istantanea, cioè riassumibile in poche parole: lui è un giornalista kazakho, antisemita e razzista, che viene inviato dalla sua tivù in America dove si innamora di Pamela Anderson.
Accipicchia.
Rivelandosi forse più divertente di lui, l’ambasciatore a Londra Erlan Idrissov lo ha attaccato dicendo che «il film di Borat può essere stato concepito soltanto da qualcuno che non conosce affatto il Kazakhstan». Fin qui, d’accordo. Ma poi: «Siamo sopravvissuti a Stalin, sopravviveremo anche a lui». E vabbè.

Un po’ come se quarant’anni fa i napoletani avessero accusato Dean Martin perché in That’s amore sciorinava tutti i luoghi comuni del Vesuvio da cartolina. Insomma, una polemicuzza da diporto che forse è speculare allo spessore del film e all’altezza della comicità che lo ispira.

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