Le Borse snobbano i rating. E l’Fmi ci promuove

C’è qualcosa di scientifico nel taglio di un rating? Se il giudizio che lo ha determinato contiene anche ingredienti dal sapore politico, saremmo già portati a dire di no. Ma in fondo, ciò importa fino a un certo punto. Conta, invece, che quelle maestrine dalla bocciatura facile e dalle promozioni talvolta incomprensibili (due casi clamorosi: Enron e Argentina) che sono le agenzie Usa, distribuiscono voti sulla base delle loro opinioni. A volte legittime, ma pur sempre opinabili. Di fronte alle quali si può restare sorpresi, ma senza spaventarsi. Come hanno fatto ieri i mercati, che si aspettavano una mossa dal versante Moody’s e si sono invece visti recapitare quella targata Standard&Poor’s. Poco male, visto che il downgrade non ha lasciato segni nè sugli indici europei (Milano ha sfiorato un +2%), nè sullo spread tra Btp e bund tedesco, sceso a 390 punti dopo un picco oltre quota 400.
Sull’aleatorietà dei giudizi delle tre sorelle del rating si potrebbero versare fiumi di inchiostro. Non lo faremo, perché ci basta solo ricordare che a neppure 24 ore di distanza dalla decisione di S&P, il Fondo monetario internazionale offre un’immagine un po’ diversa dell’Italia. Sentite Carlo Cottarelli, cioè l’esperto dell’Fmi in materia di conti pubblici: le misure approvate dal nostro Parlamento nei giorni scorsi, ovvero la manovra da 54 miliardi, «sono importanti e sono sufficienti per ridurre il rapporto deficit-Pil all’1%, vicino al livello della Germania nei prossimi anni».
C’è dell’altro, ovvero una sottolineatura sulla sostenibilità del sistema previdenziale italiano e dunque sulla spinosa questione se sia necessario rimettere mano alla struttura delle pensioni: «L’Italia ha messo in atto importanti riforme del sistema pensionistico. Il problema - suggerisce Cottarelli - non sono le pensioni o la sanità nel lungo termine, il problema è l’elevato debito pubblico e la crescita bassa». Eccoli, i due nodi. Il primo espone l’Italia agli strali dei mercati e costringe la Bce ad acquistare Btp; l’altro balza all’occhio nelle stime dell’Fmi sul Pil, che aumenterà solo dello 0,6% quest’anno e appena dello 0,3% nel 2012, contro il +1% e il +1,3% dell’outlook di giugno. È una decelerazione non isolata (ben più sensibili sono i tagli sulla crescita Usa: +1,5% quest’anno, +1,8% nel 2012; per l’euro zona l’incremento del Pil è stato rivisto al ribasso all’1,6% quest’anno e all’1,1% nel 2012), ma che avrà ripercussioni anche sul risanamento dei conti a causa delle minori entrate. L’organizzazione di Washington prevede infatti che l’Italia non riuscirà a riportare in pareggio il bilancio nel 2013, quando il disavanzo sarà pari all’1,1%, un livello comunque decisamente inferiore al 4% del 2011 e al 2,4% dell’anno prossimo. Cifre che non cancellano peraltro il giudizio sostanzialmente positivo del Fondo, considerato che il risultato finale costituirebbe il secondo deficit più basso tra i Paesi del G7.
Gli esperti dell’Fmi non sembrano neppure preoccupati per la febbre da spread che ha colpito i Btp. Con una valutazione che contraddice l’opinione prevalente, sostengono che l’Italia «può reggere spread nell’ordine dei 300-500 punti base per alcuni anni, il tempo necessario per invertire la dinamica del debito. Ma a condizione che l’avanzo primario cresca come previsto». Grazie all’attuale vita media del debito pubblico, «relativamente lunga», un aumento di un punto percentuale dei tassi di interesse determina infatti un appesantimento dell’onere sul debito pari allo 0,2% del Pil entro un anno dallo choc, e dello 0,5% del Pil entro tre anni.
Insomma, niente a che vedere con una Grecia in bilico sul precipizio della bancarotta. Ieri i mercati hanno scommesso che il governo di Atene riuscirà a convincere la troika Ue-Bce-Fmi a scongelare l’ultima tranche di aiuti da 8 miliardi di euro, ossigeno indispensabile per evitare il default. Oggi si saprà se hanno avuto ragione.

Da stasera, l’attenzione degli investitori sarà comunque tutta rivolta alla Federal Reserve. Ben Bernanke potrebbe infatti annunciare nuove misure di alleggerimento monetario, come per esempio la conversione di parte dei bond a breve termine in titoli di lungo periodo.

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