Il boss «La giustizia? Solo con me»

«Sono in carcere da trentadue anni. Se calcoliamo gli sconti di pena cui avrei diritto, fanno quarantacinque anni. E poi si dice che in Italia non c’è la certezza della pena».
Nella gabbia della prima Corte d’assise, ad ascoltare le ultime battute del processo contro di lui, c’è l’uomo che per una generazione di cronisti di «nera» è stato una specie di mito. Domenico Papalia, nell’iconografia della malavita milanese, era il Capo dei capi. Ma ieri è un signore anziano e tranquillo, cordiale e sorridente, vestito con la distinzione pacata che si usava una volta nei paesi del sud. Certo, ce l’ha un po’ con i giornalisti che «non sapete scriverne una giusta neanche per sbaglio». Ma questo non gli impedisce di dialogare, di raccontare la sua su questo processo e su come va il mondo.
«Leggo sempre sui giornali che in Italia non ci sarebbe la certezza della pena. In parte è vero, in parte no. È vero per i tossici, per i pedofili, per quelli che creano davvero i guai alla gente, che dovrebbero stare dentro e invece stanno fuori. A mio parere, è questo che non va, è a questo che si dovrebbe mettere rimedio. Invece la certezza della pena c’è, eccome, per quelli come me. Per quelli che si sono sempre comportati seriamente».
Su cosa abbia significato per lui comportarsi seriamente, «Mico» Papalia e la Procura della Repubblica hanno idee diverse. Per i magistrati Papalia è stato per vent’anni il numero uno della ’ndrangheta al nord. Mentre fuori i suoi fratelli minori, Antonio e Rocco, gestivano il business dei sequestri e della droga, lui dal carcere tirava le fila. «Mico» invece si considera uno che sta in cella da una vita per un delitto che giura di non avere commesso, l’uccisione a Roma del boss Antonio D’Agostino, nel 1976.

Come dice di non avere mai dato l’ordine di uccidere nel 1990 Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera. «Dicono che fu per vendetta. Ma a bloccarmi i permessi dal carcere fu un giudice. Mormile non c’entrava niente. Perché avrei dovuto farlo ammazzare?».

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