«Il Brancaleone Gassman villano prima, galante poi»

Catherine Spaak ricorda il grande partner nel capolavoro di Monicelli del ’66: stasera sarà proiettato a Roma in versione restaurata

Michele Anselmi

da Roma

L'armata Brancaleone? Un film di quarant’anni fa che non finisce mai di stupire; e insieme un modo di dire entrato d’impeto nel linguaggio comune. Non più di una settimana fa, anticipando un ambizioso progetto che si chiamerà Italia 2051, i fratelli Vanzina hanno evocato in chiave fantascientifica quella sbrindellata truppa medievale di poveri cristi. E sul nostro Giornale Stefania Craxi ha appena sparato a zero su «quella specie di armata Brancaleone che è il centrosinistra». Naturalmente l’offesa è bipartisan: quante volte abbiamo ascoltato esponenti dell’Unione definire «un'armata Brancaleone» l’attuale compagine governativa?
Ai politici di entrambi gli schieramenti consigliamo allora di prenotare un posto per stasera al romano cinema Empire, dove, nel quadro delle iniziative meritoriamente promosse dal «Progetto cinema» della Philip Morris, sarà proiettata la copia restaurata del capolavoro di Mario Monicelli. Sì, capolavoro. Perché quello spassoso film del 1966, cui seguì quattro anni dopo il più cupo e meno risolto Brancaleone alle Crociate, incarna un capitolo fondamentale del cinema italiano. Non per niente il bel volume edito per l'occasione, a cura di Stefano Della Casa, porta come sottotitolo: «Quando la commedia riscrive la storia». In questo caso il Medioevo cavalleresco, fatto di corazze lucide e bandiere sfavillanti, palazzi turriti e regali palazzi, eroi dal fiero cipiglio e dame virginali.
Sebbene costretto a letto da una brutta influenza, il novantenne Monicelli ricorda volentieri la genesi del film. «Parlandone con Age & Scarpelli ci venne l’idea di raccontare un Medioevo cialtrone, fatto di poveri e ignoranti, di ferocia, miseria, fango e freddo. Insomma tutto l’opposto di quello che ci insegnavano a scuola, Le Roman de la Rose, Re Artù, il Santo Graal e tutto il resto». Il titolo - appunto L'armata Brancaleone - venne fuori prima di scrivere la sceneggiatura, nella quale confluirono, in un clima giocoso da poema eroicomico, echi di Folengo, del Pulci, di Rabelais, fors’anche di Cervantes. Il tutto impacchettato nei costumi fantasiosi di Piero Gherardi e nell’accattivante marcetta («Branca, Branca, Branca!») di Carlo Rustichelli.
Purtroppo di quella sgangherata/baldanzosa «armata» nessuno o quasi è sopravvissuto. Se ne sono andati Folco Lulli (il rude Pecoro), Carlo Pisacane (il giudeo Abacuc), Gian Maria Volonté (il bizantino Teofilatto), Enrico Maria Salerno (il profeta Zenone), per ultimo, nel 2000, Vittorio Gassman, che legò per sempre il proprio nome a quello di Brancaleone da Norcia, condottiero spiantato e maldestro pronto a immolarsi per difendere la periclitante virtù dell’amata Matelda. E proprio Matelda, ovvero Catherine Spaak, ieri mattina ha voluto rievocare, seduta accanto al sindaco Walter Veltroni, Vittorio Cecchi Gori, Giuseppe Rotunno e Alessandro Gassman, l’atmosfera del tutto particolare respirata su quel set. In verità, non fu facile per lei intonarsi alla compagnia. «Dominava una goliardia maschile spesso offensiva e provocatoria. Specie Gassman, a vantaggio degli altri membri della troupe, si divertiva a coprirmi di parolacce, a mettermi in ridicolo per suscitare l’ilarità degli amici». Poi, però, il miracolo, che l’attrice racconta così: «Dovevo tornare a Roma dopo una giornata di riprese, ma non c’erano auto disponibili. Sicché mi proposero di fare il viaggio con Vittorio, venuto a Viterbo con la sua macchina. Temevo il peggio. Per due ore non pronunciammo una parola, un silenzio carico di tensione. Ma, una volta arrivati, Vittorio mi aprì galantemente lo sportello e disse solo: “Scusami”. Fu l’inizio di una grande amicizia».
Ce ne sarebbero di episodi da raccontare a proposito di questo film colto e popolare insieme, fonte di una serie infinita di buffi arcaismi, latinismi, forme dialettali, neologismi. Ricordate? «Sarai mondo se monderai lo mondo». Oppure. «Facemo mille petecchioni e così faremo contenti li sapienti e li minchioni». Pochi sanno, ad esempio, che Monicelli non voleva Volonté per il ruolo dell’indolente Teofilatto. «Me lo impose Mario Cecchi Gori, preoccupato che il film andasse male», rivela il regista a Della Casa. «Io cercavo un tipo diverso, un attore magro, rastremato, evanescente, come sono raffigurati i bizantini, ma al contempo mascalzone.

Sarebbe stato perfetto Vianello, con la sua aria aristocratica fasulla». Eppure che meraviglia riascoltare l’erre moscia di quel Volonté vizioso e profittatore quando sussurra: «Sì che me ne dole, ma a voi che ve ne cale?».

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