Branciaroli, incubi di un Edipo contemporaneo

Nell'Edipo diretto da Calenda (in scena fino al 30 aprile allo Strehler), Branciaroli abiura da par suo l'eccellente interpretazione che, nello stesso ruolo, anni fa gli guadagnò ampi consensi quando a Vicenza, sul palco dello Scamozzi, impersonò l'infelice figlio di Laio e Giocasta nello spettacolo di Puggelli. L'attore che in passato, con l'avallo di Luca Ronconi, abbordò addirittura il ruolo di Medea giocando con impagabile ironia sullo scarto tra femminile e maschile che da sempre si accompagna alla figura androgina della maga della Colchide transfuga in una terra straniera lontana anni luce dalla furia vendicativa dei barbari, il personaggio cantato da Freud appare infatti non una persona ma un enigma. O, meglio ancora, diviene un incunabolo.
Come si evince in questo show inedito e suggestivo che, fin dall'inizio, ci presenta un re di Tebe coricato su un letto d'infermo che lo apparenta a Filottete, il grande malato del teatro classico. L'Edipo di Franco ci appare continuamente vittima di un incubo ricorrente inspiegabile per noi spettatori e per lui stesso indecifrabile. Mentre alle sue spalle un coro maschile a torso nudo e, dalla cintola in giù, drappeggiato in ampie vesti cerimoniali si assimila alla figura proteiforme di quel Centauro che, a suo tempo, vegliò sulla formazione di Giasone, un altro degli innumerevoli re senza corona del mito arcaico. Su quel giaciglio che via via assume l'aspetto di un altare sconsacrato su cui, alla fine, l'eroe implacabile giudice di se stesso consumerà accecandosi il delitto di non aver scorto nel suo corpo e nei suoi atti l'artefice della colpa atavica annunciata da Apollo, dio della chiarità razionale, Edipo diventa un mutante.
A Branciaroli basta una folta parrucca corvina più un logoro reggicalze e un paio di scarpette color del sangue per far deflagrare l'immagine del monarca di Tebe. Che sotto i nostri occhi diviene Giocasta, dialogante con lui in una trepida voce di gola suscitata ad arte dall' interprete in toni bassi e quasi caricaturali.Mentre ad evocare Tiresia, il veggente cieco dalla nascita che, dal profondo dell'io, enuncia l'incontestabile verità sulla nascita dello sciagurato che, senza saperlo, ha sposato la madre dopo aver ucciso il padre, Branciaroli si rifugia in un aulico silenzio di morte appena interrotto qua e là da convulsi singulti che a noi giungono dall' insondabile profondità dello spazio come un eco doloroso del Fato che tutto trascende nel suo corso implacabile. Di fronte all'immagine ricorrente del Coro, questo spaventoso ostacolo che mai sapremo come debba agire in una rappresentazione moderna, che qui con un geniale colpo d'ala si muta in una struttura proteiforme.

Simile graficamente all'andamento della celebre scultura di Laocoonte vittima delle serpi che lo straziano, il Coro di questo bellissimo spettacolo si contorce, si piega e si rizza davanti all'escluso dal consorzio umano cercando prima di impaurirlo, poi di sfiorarlo e infine di afferrarlo tra le sue spire come le Furie che, nel dramma di Oreste,si avventavano rapaci sul figlio di Agamennone.

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