Brescia - «Un piano criminale studiato con cura, in ogni minimo dettaglio. Un omicidio talmente premeditato che ogni attenuante è stata scartata dal giudice. Perché Hina fu convocata con una scusa in casa dal padre e, una volta a casa, una volta in trappola, sola e indifesa venne assalita e colpita dal padre e dai due cognati con una ferocia che non le ha concesso scampo: trentadue coltellate, gran parte delle quali al viso e alla gola». Nel suo ufficio, al terzo piano della Procura di Brescia, il pm Paolo Guidi commenta con queste prime parole l'epilogo del processo per l'omicidio di Hina.
La giovane donna pakistana sgozzata dalle persone che avrebbero dovuto volerle più bene, solo perché aveva scelto di «vivere all'occidentale». Appena cinque minuti prima, a mezzogiorno, il giudice Silvia Milesi, accogliendo di fatto tutte le richieste del pubblico ministero, aveva pronunciato la sentenza che tutti si aspettavano: trent'anni di carcere al padre di Hina, Muhammad Saleem regista e primo esecutore della punizione mortale e trent'anni ciascuno a Kalid e Zahid Mahammud, i due cognati della ventunenne, compagni di coltello nel massacro compiuto nella casa di famiglia, a Sarezzo, in Val Trompia. Il massimo della pena previsto in un processo con la formula del rito abbreviato.
Il massimo della pena che comunque non riporterà pace a serenità nel cuore di Giuseppe Tempini, l'operaio bresciano con cui la ragazza aveva scelto di andare a convivere. «L'uomo - come riconosce il pm Guidi - che ha permesso di risolvere il caso e di smascherare i colpevoli di un delitto così atroce, perché è stato Tempini - ricorda Guidi - che, allarmato per la sorte di Hina, con la sua ostinazione, ha portato i carabinieri nella casa di Sarezzo e li ha convinti dei suoi sospetti, dei suoi timori fino a spingerli a scavare nel giardino di quella casa dell'orrore e a scoprire il cadavere. Altrimenti Hina oggi sarebbe una delle tante ragazze svanite nel nulla». Un delitto da intendersi come punizione per lavare l’onore della famiglia e riconquistare il rispetto della comunità pakistana. Quel rispetto perduto per colpa di una figlia «ribelle» che si era messa a lavorare in una pizzeria, a vestire all’occidentale, a servire i clienti qualche volta addirittura in minigonna.
Il pm Paolo Guidi non ha dubbi: «È stata proprio questa la causa che ha scatenato la decisione presa dal padre. In Pakistan è un retaggio ancestrale, si chiama Karo-Kari, ovvero: delitto d’onore. In buona sostanza - spiega il pubblico ministero - fin quando l’atteggiamento di Hina, il suo cambiamento di usi e costumi, ha riguardato solo la famiglia, suo padre ha tollerato, sopportato. Ma quando Hina ha deciso di lavorare in quel ristorante di Brescia, quando quel ristorante, prima frequentato solo da indiani e italiani, ha cominciato ad affollarsi di pakistani che volevano vedere quella giovane connazionale così emancipata, allora il padre ha pensato di reagire nel peggiore dei modi». Tanto che la decisione di ucciderla sarebbe giunta dopo un gran consiglio dei maschi adulti di famiglia.
Tre uomini e tre coltelli per un’esecuzione spietata. Nella quale, secondo il giudice Milesi, solo lo zio materno, condannato a due anni e otto mesi, avrebbe avuto un ruolo marginale contribuendo solo alla distruzione del cadavere.
Tre uomini e trentadue coltellate. E il corpo martoriato di una ragazza che era armata solo dei suoi sogni. Finita in una fossa scavata nell’orto di casa, accanto ai pomodori. Avvolta in un lenzuolo bianco, col capo rivolto alla Mecca.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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