Bronx, il prete italiano fratello del Padrino salva il quartiere più cattivo del mondo

Il reverendo Louis Gigante è presidente di un ente che sta recuperando la zona famosa per la malavita. Vincent era il boss del Clan Genovese, uno dei più sanguinosi della mafia Usa. Si finse pazzo per non finire in prigione

da New York
La chiesa è una copertura. Avanti e indietro: costruttori, sindaci, consiglieri comunali, presidenti. Entra quello esce quell’altro: una stretta di mano, un sorriso, qualche firma. E fogli sono progetti, finanziamenti, mutui. Soldi, un sacco di soldi. La parrocchia cattolica di Saint Athanasius è un centro di potere abitato dal Signore e da un suo delegato con il cognome italiano: Gigante. Reverendo Louis Gigante, da quarantacinque anni Sole che illumina queste strade del Bronx dove vent’anni fa si moriva ammazzati per uno sguardo. Padre Gigante è un uomo che va per i 75 anni con un segretario factotum e dieci numeri di telefono dove risponde sempre la stessa perpetua, che ovviamente fa da argine: «Guardi father Gigante è molto impegnato adesso. Domani? Ha una conferenza».
Impegnato lo è davvero, il reverendo: incontra persone ogni minuto. Tutta gente ricca e potente che può venirgli utile prima o poi. Allora la giornata diventa una serie di appuntamenti che vanno molto oltre le confessioni, le messe e le comunioni. Di fatto padre G, come lo chiamano qui, è un uomo d’affari. Solo che tratta per gli altri, che sono gli abitanti del Bronx. Lui è l’uomo che questo quartiere lo ha cominciato a salvare dal 1968, quando ancora non era diventato l’inferno degli anni Settanta. È il capo della Southeast Bronx Community organization, società no-profit che rimette a posto l’ex zona più violenta del pianeta. Il Bronx andava salvato da qualcuno. E non poteva essere un presidente come Jimmy Carter che lo usò per essere eletto alla Casa Bianca. Arrivò seguito dal codazzo presidenziale e improvvisò un comizio: «Vedete, questo è quello che hanno combinato i miei predecessori. Questa è l’America che io salverò a cominciare da questo posto. Il Bronx». Ecco, mister reverendo ha fatto il contrario: non è venuto da Washington per indicare il quartiere degli Yankees come la cloaca degli Stati Uniti. Lui ci ha vissuto sempre e ha fatto rumore dal di dentro, ha rotto le scatole a sindaci, senatori, governatori: «Volete i voti del Bronx, bene allora aiutatelo». In quarant’anni Louis è diventato un manager della bontà: la Sebco ha costruito cinquemila appartamenti per gente che non poteva permettersi un affitto a New York. Per costruirli ha avuto bisogno di operai: ha preso solo gente locale, per toglierla dalla strada e dargli un lavoro. Oggi gli stipendiati della società sono trecento, più gli stagionali che vengono chiamati quando c’è da mettere su un muro, da riparare gli impianti, da tagliare l’erba dei giardini. Perché le case costruite dal reverendo hanno pure il verde.
Non è stato facile metterle su: s’è dovuto scendere a compromessi con la politica. Allora padre G. s’è candidato nel distretto del Bronx alle comunali e ha vinto. Democratico sempre, ma non ora: è amico e elettore di Michael Bloomberg «l’uomo che ha difeso la città». Negli anni Settanta aveva cercato anche di entrare al Senato, con il benestare dell’arcivescovo di New York. Fallì, forse per colpa della famiglia. Il reverendo buono è il fratello di uno dei boss più celebri della mafia americana, Vincent Gigante. Chin, per gli amici. Allievo di Lucky Luciano e poi capo del clan Genovese, uno dei più forti di New York: un padrino di quelli veri, cattivo e violento, con un passato da pugile semiprofessionista. Vincent - americano con i genitori dell’Avellinese - era il reuccio del Village. Aveva cominciato quando don Vito Genovese gli chiese di uccidere un boss rivale: Frank Costello. Non riuscì ad ammazzarlo anche se era convinto di averlo fatto, però da allora cominciò la scalata. Fino al vertice, fino al comando: settecento picciotti sotto mano più un esercito di amici da usare nel momento giusto in tutta la zona di competenza, che andava dal New Jersey a Miami. Ma Chin non era John Gotti. L’America lo ricorda perché lui era il boss che si finse pazzo per non andare in carcere: usciva in pigiama dalla sua casa modesta di Bleecker street e si fasceva il giro dell’isolato in pantofole. Lo sguardo perso nel vuoto, le frasi lasciate a metà e ovviamente sconnesse. Faceva apposta il folle perché sapeva di essere pedinato e voleva fregare gli agenti. Quando lo portarono al distretto di polizia, gli fecero un test psichiatrico: positivo. S’era così impegnato a fare il malato che aveva convinto anche gli psichiatri. Lo lasciarono fuori e lui per altri tre anni continuò nella recita: il pigiama, lo sguardo, le parole senza senso. La scenaggiata è andata avanti per un sacco di tempo. Poi, nel 1997, lo incastrarono: dodici anni in un carcere di massima sicurezza.
Louis ha sempre difeso il fratello Padrino: «Io pensavo che fosse veramente pazzo. E non pensavo neppure fosse un mafioso. Era un ragazzo di strada, ma pensare che fosse un boss era ridicolo». L’ha creduto fino alla fine: 19 dicembre 2005, quando Chin è morto in cella, in un penitenziario del Missouri. Funerali in grande stile, poca gente, però. A celebrarli padre Gigante, nella chiesa di Sant’Antonio da Padova al Village. Perché ovviamente Vincent da perfetto mafioso era un grande cattolico.
Adesso Louis s’è asciugato le lacrime ed è tornato nel reticolato intorno a Saint Athanasius. Prega per il fratello e forse pensa che sia meglio così, con Vincent nel regno dei cieli. In terra, invece, ci resta lui per compiere la sua missione: salvare definitivamente gli ex dannati del Bronx prima che venga chiamato dal Signore. Allora si batte. Si sveglia la mattina e aspetta su una poltrona lo sciame di amici che vogliono dargli aiuto.

Gli offrono soldi e lui li accetta. Sempre sul limite, su una frontiera che non è geografica. Sa che i bronxoniani sono dalla sua parte. La gente lo ama: «Questo posto non è il Paradiso, però cercheremo di farlo avvicinare».

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