BUCOLICHE LOMBARDE

Muse terrone. In latino suona Sicelides Musae, in dialetto Mùs Teronn. In italiano è un evento letterario.
Sicelides Musae, paulo maiora canamus: / non omnes arbusta iuvant humilesque myricae... E cambiando verso: Mùs Teronn, cantemm là ’n quajcussurìna da mej. / Menga a tùcc ga pias i maragàsc e i viòll du lu... Non tutti amano le stoppie e le campanule viola...
Non tutti oggi comprendono il dialetto, pochissimi lo parlano, quasi nessuno lo scrive. Edoardo Zuccato, nato 44 anni fa a Cassano Magnano - più correttamente Cassan Magnag - a nord del profondo nord, sul confine geografico tra Varese e Milano e su quello linguistico tra il varesotto e l’altomilanese, lo parla, lo scrive e lo mette in versi. Poeta autentico - come tutti quelli che non scelgono la lingua della poesia, ma ne sono scelti - Zuccato ha pubblicato due libri di poesie in dialetto, da Crocetti e marcos y marcos, insegna Letteratura inglese allo Iulm di Milano, è caporedattore della prima rivista in Italia di traduttologia, ossia Testo a fronte, e ha firmato traduzioni ormai classiche di Shelley, Coleridge e Anne Sexton. «Avendo a che fare tutti i giorni con tre lingue - l’italiano, il dialetto e l’inglese - tradurre non è una semplice attività: in qualche modo è la mia condizione di vita». La poesia, come la lingua, è un destino.
A occuparsi di poesia dialettale Edoardo Zuccato ha iniziato presto, subito dopo la laurea, mentre era in Irlanda con una borsa di studio. «Quando sei in un Paese straniero e hai a che fare con una lingua che non è del tutto tua, avviene una sorta di rimescolamento, è facile che affiorino ricordi, parole perdute, espressioni dimenticate nella tua lingua “primordiale”, ossia il dialetto. A me è capitato così. E allora ho iniziato a leggere Porta e gli altri poeti milanesi, e a scrivere. O almeno: a tentare di scrivere in quella lingua che ascoltavo da piccolo dai miei genitori, ma che noi non potevamo parlare, quando esprimersi in perfetto italiano era un passaggio di emancipazione sociale e il dialetto segno in qualche modo di ignoranza. Ecco perché a noi ragazzi lo vietavano... ».
Fascino perverso per il proibito, il dialetto cominciò a risuonare nei versi di Zuccato. Prima semplice suggestioni, poi il riflusso di parole antiche e per questo nuovissime, lo studio sulle grammatiche e dizionari italiano-milanese, il chiacchierare con i vecchi del posto, la lettura dei grandi poeti-maestri del dialetto, da Porta a Loi, quindi le prime raccolte poetiche. E oggi, Virgilio. Tra i classici, ha scelto il classico: le Bucoliche, uno dei testi più noti della storia letteraria di ogni tempo, il libro da cui nasce un genere poetico, dove più che l’agro romano è il paesaggio padano, quello del mantovano Virgilio, a offrire lo sfondo a vicende di pastori e mandriani, di Muse e di dèi, di ozii e di pace, ma dove pure si sentono gli echi dei rivolgimenti sociali del I secolo avanti Cristo. Le Bucoliche, o per meglio dire - in una versione altomilanese che mantiene tutta la poesia dell’originale - I Bücòligh, come Edoardo Zuccato ha intitolato la sua personalissima traduzione virgiliana pubblicata dalle edizioni Medusa: la prima in assoluto di questo genere. «Forse sarebbe stato più facile provare con qualche autore satirico, come Giovenale o Persio. Una poesia più concreta, più ricca di espressioni “dialettali”. Poi però ho scelto Virgilio perché mi stuzzicava l’ambiente di campagna, i tramonti, i casolari, i dialoghi cantalenanti studiati al liceo... ». Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi... il verso latino più recitato da generazioni di studenti e che trascolora in un famigliare Ti, Tanén, te sté lì cüétt a pus d’una póbia...
«Alla traduzione ho lavorato circa un anno. All’inizio molto lentamente, poi però una volta preso il passo i versi venivano quasi da soli... Ho tradotto direttamente dal latino al dialetto, saltando completamente l’italiano, anche se poi ne ho fatto una versione che ho messo in coda al testo... L’egloga più difficile? Forse la quarta, quella della magia. La più divertente? La terza, quella dove i due protagonisti litigano, quasi fossero in una di quelle corti lombarde di una volta... ».

La terza: quella della sfida tra i due pastori, quella che si apre con Menalca che chiede di chi siano queste pecore: Damm a trâ a mi, Tabéa, hin dul Maulö chi bèr chi? E si si pensa che a parlare è ul Galbià - la variazione rispetto al testo latino dei nomi di persona è l’unica che si concede l’autore - si percepisce come sia davvero esile, ancora dopo duemila e più anni, il confine che separa la campagna romana dalla brughiera del Ticino. Almeno in poesia.
Edoardo Zuccato, «I Bücòligh. Le Bucoliche di Virgilio» (Medusa, pagg. 90, euro 11)

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