Il budino di riso diventa poesia

Il budino di riso diventa poesia

Ancora una ventina di giorni e, tra Porta Vittoria e largo Augusto, riaprirà Taveggia, altri venti giorni e per Sant’Ambrogio sarà la volta del Savini in galleria Vittorio Emanuele. Taveggia sarà sempre un bar-pasticceria, il Savini invece un posto di grandi numeri, con un angolo ristorativo che non deluderà chi era contento delle ultime gestioni nella speranza che la qualità si innalzi al di sopra della mediocrità per turisti tipica dell’asse San Babila-piazza Duomo.
Nell’attesa, saracinesche ancora abbassate. Si lavora in entrambi i posti, in quello a tutto zucchero soprattutto con gli avvocati. Storia lunga e complicata. Fondata da Fermo Taveggia nel 1909 (centenario in vista), nel 1996/97 l’insegna venne ceduta, dopo trent’anni di squisitezze, dalla famiglia Carnelli al libanese Roland Hokayem. Precisato che all’angolo tra Visconti di Modrone e Cesare Battisti (il martire trentino) farebbe affari chiunque perché lì i clienti cadono dentro per movimento naturale, nel tempo Taveggia era diventata la pallida copia del grande indirizzo di un tempo e ora che la nuova proprietà, già suoi 10 tra torrefazioni e bar con il marchio «Il Caffè Ambrosiano», annuncia che «il budino di riso tornerà quello di una volta, rivisitato», basterebbe che tornasse correttamente buono.
E non sarà il solo problema perché pasticcieri non ci si improvvisa. Imperversa la grana del marchio. I nuovi titolari hanno infatti rilevato le mura dalla proprietà dell’immobile, il nome Taveggia invece è della società americana Quality Tradition che dovrebbe permettere l’usufrutto alla cordata Caron-Cavallaro-Mazzoleni-Caiato. Resta da vedere cosa accadrà quando il pool guidato da un torrefattore di Seregno, prima apertura in Milano nel 2001, deciderà, come detto ieri, di replicare Taveggia nel mondo, come ad esempio accade con la Bice.
«Apriremo con il marchio Taveggia. L’accordo verbale per recuperarlo c’è già», ha detto Donato Caiato, amministratore delegato. Ma a chi ha nostalgia del caffè e della brioche, del panettone e della torta di limone del tempo che fu, questo importa però ben poco. Conterà la qualità attuale, anche perché troppe volte il mito dei locali storici serve a tenere a galla esercizi decotti e tristemente polverosi. Tutti giovani, 40 anni il più cresciuto, e tutti motivati, con il pasticciere capo Massimo Melotto che arriva da Bastianello e altri da Peck piuttosto che Cremeria Buonarroti.
Il locale subirà un profondo restyling, anche se marmi e legni rimarranno quelli di una volta, con il recupero dei vani interrati dove non solo si pranzerà o prenderà il tè (orario di apertura, dalle 7 alle 21, per ora sette giorni sui sette), ma dove si terranno eventi culturali, quasi un caffè letterario.

Ci saranno piatti della tradizione milanese, gettonatissima da quando a Milano non si mangia più milanese, ci saranno vini da aziende agricole, nel senso di produttori di qualità sicura, c’è una famiglia che dalla Brianza è arrivata a Milano e che ha scalato un altro gradino della piramide della qualità.

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