Buffon, messaggio alla nazione «Italiani, non vi deluderemo»

«Che magia: non penso di prendere gol perché mi fido della squadra»

Tony Damascelli

Anche a scuola, nel borgo di Laroque d’Olmes, stava in fondo alla classe, ultimo banco. Come in campo, solitario. Fabien Barthez viene da una terra che sta in mezzo ai Pirenei, nel sudovest della Francia, la provincia ha il nome di Ariège, dicono che conservi la sua natura selvaggia ma accessibile. Qui, a Lavalenet, il ventotto luglio del Settantuno Alain e Joel, in aperta crisi matrimoniale, anzi già divorziati, si riunirono per veder nascere il pupo, destinato a fare sport. Come suo padre che giocava a rugby, mediano di apertura del Narbonne. Fabien ha provato di tutto, il rugby, l’alpinismo, lo sci e ovviamente il football, lo conferma un documento: a 7 anni è iscritto alla scuola di calcio di Lavalenet, a undici ha il cartellino con fotografia. Se con il pallone sa che cosa fare con i libri il problema è grave. E allora si deve scegliere. Si sceglie le foot che cambia la sua vita. In verità non era nato portiere, fu Aimé Goudoux a spostarlo tra i pali, aveva intuito che Fabien aveva la testa giusta, cioè un po’ folle, di chi deve stare a guardare gli altri calciare la palla e lui, invece, attendere e usare le mani. Cosa che Barthez ha saputo fare benissimo fino a oggi, passando da Tolosa a Marsiglia, su intuizione di Bernard Tapie che sarà stato pure quello che tutti sanno ma ha avuto sempre il fiuto degli affari e dei calciatori. È per colpa di Tapie, degli affari quella volta sporchi, che Barthez finì in B con l’Olympique ma non mollò la porta marsigliese, prima risalì di categoria poi accettò di trasferirsi a Montecarlo, dove trova alcuni mattatori, Trezeguet e Henry tra questi e il passaggio della Manica, verso Manchester, l’United, con momenti esaltanti e altri di grande depressione. Vennero altri titoli, direi tutti, nazionali e mondiali, europei, vennero riti e cerimonie, il bacio di Laurent Blanc sulla sua testa calva, scaramantico, la lingua tirata fuori dopo una parata ad effetto, la storia d’amore e di sesso con Linda Evangelista, non so se mi spiego, poi una relazione più forte e vera con Aurelie che gli ha regalato, tre anni fa, Lenny, vennero mille fotogrammi della sua esistenza solitaria e, assieme, euforica, la risata imprevista e improvvisa durante l’esecuzione della Marsigliese o certe gag davanti ai rigoristi. Poi, il giorno dodici di febbraio dello scorso anno, il Marsiglia va a giocare un’amichevole in Marocco contro il Wac Casablanca, l’arbitro si chiama Abdellah Achiri, i francesi vanno sotto di 2 gol a 1, la partita è tutt’altro che amichevole, se le dicono e se le danno di ogni, a dieci minuti dalla fine scoppia la rissa, Barthez lascia la porta e si dirige verso l’arbitro, lo insulta e gli sputa addosso. Il Marsiglia abbandona il campo ma i marocchini chiedono l’intervento della Fifa. Fabien Barthez non la passa liscia, non c’è prova tivvù ma basta lo sputo e la testimonianza dell’arbitro e dei suoi collaboratori e dei calciatori marocchini. La federcalcio francese sospende Barthez per sei mesi ma la pena viene ritenuta debole per l’atto volgare e di disprezzo, i mesi diventano otto di cui due trasformati in lavori sociali. Barthez non si pente: «L’arbitro ha sbagliato, non gli chiedo scusa come non chiedo scusa a chi commette errori così clamorosi e in malafede, sempre, da sempre, per sempre». È fatto così, Fabien, rare parole, quasi indifferenza per ciò che lo circonda, anche caricatura televisiva ne Les Guignols di Canal +, come un calvo un po’ tonto.
Non ha cambiato idea, non l’ha cambiata nemmeno in quei due mesi passati da un centro di rieducazione di Saint-Thys, a Marsiglia, per ragazzi handicappati, a insegnar loro la gioia del football, alle lezioni di tecnica date alle ragazze calciatrici di Aix-en-Provence, o alle due ore di Tolone, nell’università estiva della lotta all’inciviltà, o ancora nel divertimento del beach soccer a Le Grau-du-Roi, per trasferirsi al chiuso del calcetto a Clairefontaine e finire a Marignane, nel corso d’arbitri, i grandi nemici, quasi a fischiare la conclusione del suo castigo, della sua condanna.
Storia appena di ieri, una parentesi lunga senza le urla del pubblico, l’ombra degli avversari, il silenzio solitario del proprio domicilio in porta. Otto anni orsono quando Gigi Di Biagio scaricò quel tiro di rigore contro la traversa, Fabien tirò fuori la lingua.

Due anni dopo a Rotterdam tenne stretto tra le mani un tiro di Del Piero destinato in rete. Domani sera non avrà il bacio di «Lolo» Blanc sulla sua testa lucida e fumante di calura. Adesso chiude con i Bleus, dopo aver chiuso la carriera a Marsiglia, ultimo metrò. Vediamo chi scende per primo.

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