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Bugno: «Doping, o si cambia o si chiude»

L’ex ciclista: «Come riconoscere un “bombato”? Semplice. Chi vince una sola volta o un solo anno, dopo stagioni di anonimato, è sospetto»

Cristiano Gatti

Alle volte, le coincidenze. Quando Gianni Bugno lascia il ciclismo, dopo due campionati del mondo e molte lotte con Miguel Indurain, è il 1998. Proprio in quell’anno, il ciclismo comincia il calvario che lo porta dritto in fondo all'abisso di questi giorni. Si apre con lo scandalo Festina, lo squadrone costruito sull’Epo, e si finisce a Landis, vincitore al testosterone dell’ultimo Tour, quello che i soliti francesi hanno esibito al mondo col certificato di qualità, a prova di taroccamenti e contraffazioni.
Adesso Bugno è un pilota d’elicottero. Lavora per il pubblico soccorso, dai barconi dei clandestini in Mediterraneo agli incendi nelle nostre vallate. È un sogno di bambino che si realizza, dopo una gloriosa avventura da campione. Tutto questo però non gli impedisce di mantenere saldi legami col mondo della bicicletta, attualmente nelle vesti di segretario dell'Associazione corridori. Un po’ sindacalista, un po’ libero pensatore, in generale uomo poco inquadrabile negli schemi fissi, non si sottrae ad un’onesta radiografia dell’incredibile momento.
Caro Bugno, cominciamo da lontano: quando lei lasciò le corse disse che non si riconosceva più nel ciclismo. Perché?
«Ero spaesato. Come corridore, ho sempre corso intere stagioni. Gare in linea e gare a tappe. In quel periodo, metà anni Novanta, si imponeva invece la specializzazione. Gente che preparava un solo appuntamento, corridori "a tappe" e corridori "in linea". Mi sono sentito fuori luogo».
Non crede che quell’esasperazione sia all’origine della forsennata corsa al doping?
«Può darsi. Erano gli anni d’oro dell’Epo. Si è esagerato».
È vero che il doping può costruire un campione?
«Questa è una fesseria. Alla base di tutto c’è l’atleta. Basso è Basso perché è forte, Cunego è Cunego perché è forte».
E come si fa a capire chi è finto?
«C’è un metodo infallibile: chi vince una volta sola, o un anno solo, magari dopo tante stagioni di anonimato, è fortemente sospetto».
Ma si può fare ciclismo senza doping?
«Tranquillamente. Però cerchiamo di capirci. Usciamo dalle stupide ipocrisie. Il doping è quello che falsa te stesso. Uso questo paragone: è come una valletta che si rifà il seno a trent’anni per entrare in trasmissione. Tutto un altro discorso, però, è la medicina. Quella sana, quella utile. Non possiamo negare a un ciclista che s’è fatto cinque passi alpini la flebo di zuccheri che viene tranquillamente data negli ospedali agli anziani...».
Ma ormai la gente pensa che vincano i più furbi, non i più forti.
«Non si vince per dieci anni grazie al doping. Questo doping non esiste. Lo ripeto: diffidare dei vincitori saltuari e occasionali...».
Cosa vogliamo dire dei controlli antidoping?
«Che evidentemente sono ridicoli».
È così drastico?
«Mi limito a fare un ragionamento logico. Basso e Ullrich vengono buttati fuori perché sospettati di frequentare il dottor Fuentes. Bene, tutti addosso. Ma guarda caso Basso e Ullrich non sono mai caduti a un controllo. E sono i corridori che ne subiscono più di tutti, perché sono i più forti. Delle due, l’una: o li abbiamo eliminati troppo frettolosamente, oppure dobbiamo dire che i controlli sono ridicoli».
Non fa una piega. Ma se eliminiamo i controlli, è la resa.
«Il doping è sempre esistito ed esisterà sempre. Come nella vita esiste sempre il furbo che prova a imbrogliare. Purtroppo, il problema serio sta nelle categorie giovanili: figuriamoci, dovremmo stare tranquilli perché lì ci sono i genitori a controllare, poi magari scopri che sono i primi a cercare il prodotto del miracolo».
Siamo tutti bravi a dire che è uno schifo. Ma qualche idea concreta? C’è chi dice che basterebbe correre meno corse e con percorsi più facili.
«Questo è uno sport di fatica e di fondo. Meno corse e più facili significa incentivare anche gli sprovveduti al doping, perché si convincono di poter vincere pure loro».
Che fare, allora?
«Prima, maggior selezione. Qui chiunque diventa professionista. È difficile migliorare il livello e la serietà».
Quindi?
«Da anni chiedo: perché non immettere nei medicinali delle sostanze traccianti? Sarebbe facilissimo rilevarle. Purtroppo, tocchiamo un discorso enorme: le case farmaceutiche. Sono le prime a rifiutarsi. È facile capire perché. Per anni, l’Epo è stata una delle sostanze più vendute al mondo. Mica possiamo dire che sia soltanto per i malati, mi pare».
Comunque: traccianti nei medicinali. Benissimo. Altre cose?
«Basta concentrare la lotta sul corridore. Peschiamo Landis? Perfetto: si fermano tutti. La squadra, il procuratore, il medico. Questo medico che non sa mai nulla, ma che invece ha sempre il quadro clinico sotto mano, e può tranquillamente vedere i valori ballerini... Ciascuno viene chiamato a discolparsi, non solo Landis. Ed eventualmente tutti pagano. Non sta in piedi la storiella che il corridore fa da solo, che nel suo ambiente nessuno sa niente. Prendiamo il caso Basso...».
Prendiamolo.
«Per tutto il Giro, mentre Basso trionfa, il suo diesse Riis racconta che segue come un’ombra il campione. Allenamenti, stage, alimentazione e tutto il resto. Racconta di una simbiosi perfetta. Che strano. Non appena Basso cade per una telefonata, Riis quasi non lo conosce più. Lo scarica, dice che gli chiederà spiegazioni. Ma allora: erano in simbiosi o non erano in simbiosi? Nell’attesa di chiarire, fermiamo anche Riis e la sua squadra. Poi vediamo. Come minimo, tutti quanti sarebbero chiamati a controllarsi a vicenda. E tante fesserie non le vedremmo più».
Nell’attesa, non teme che il ciclismo possa chiudere?
«Se non ci guardiamo tutti negli occhi, finisce così: i grandi sponsor se ne vanno, perché non possono rischiare la propria immagine per il doping. Restano solo piccoli sponsor. Per piccole squadre e piccole corse. Toccherà tirare la cinghia a tanta gente...

».

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